Questo numero della rivista di intelligence è diverso da molti altri, perché ha uno schema differente ed è quasi una monografia, con qualche altro intervento di corredo. Una scelta ben precisa perché l’uscita della rivista, nella sua fase finale di preparazione, ha coinciso con il terribile attentato contro i soldati italiani a Kabul e l’ottavo anniversario dell’intervento militare internazionale in Afghanistan, cominciato il 7 ottobre del 2001.
Abbiamo ritenuto - e crediamo fortemente in questa scelta - che dopo otto anni fosse giunto il momento di fermarci a ragionare e analizzare in maniera critica tutto ciò che è stato fatto in questi anni, cominciando proprio da ciò che si sarebbe dovuto fare ma che alla fine non si è fatto per tante ragioni, legittime e meno legittime.
Insomma, avviare sull’Afghanistan una seria riflessione, che tra l’altro è già cominciata all’interno della nuova amministrazione degli Stati Uniti, mentre - al contrario - nel nostro paese è ancora lungi dall’essere posta con la necessaria attenzione e il necessario approfondimento, almeno in sede politica.
Purtroppo, nonostante il lodevole lavoro di alcuni studiosi in grado di analizzare documenti e rapporti e nonostante il coraggioso lavoro di molti giornalisti che testimoniano la guerra afghana correndo per questo moltissimi rischi, a livello di comunicazione di massa e di dibattito politico la questione Afghanistan è rimasta cristallizzata in pochi slogan: missione di pace, guerra al terrorismo, lotta ai talebani. Il resto è rimasto sullo sfondo, come se non esistesse o - peggio - come se si trattasse di un fastidioso esercizio da grilli parlanti che disturbasse il senso più profondo della missione.
Proprio questa cristallizzazione comunicativa ha vanificato qualsiasi seria riflessione e ucciso sul nascere critiche e dissensi sulla missione internazionale, diventata una sorta di divino irrinunciabile dovere contro il quale era una bestemmia muovere obiezioni. Del resto, quando non esistono contenuti ma solo contenitori, è assai facile parlare per slogan facilmente orecchiabili che raggiungono un’opinione pubblica disattenta, poco informata nel merito e anche piuttosto spaventata: c’è qualcuno che può criticare i soldati che portano gli aiuti alle popolazioni stremate dalle miseria e dalla guerra? C’è qualcuno che vuole davvero che i nostri paesi siano nelle mani di terroristi sanguinari e senza un briciolo di umanità? C’è qualcuno che vuole che i talebani, con le loro conce¬zioni oscurantiste e il loro fanatismo smisurato, possano estendere la loro influenza fino ad imporre, un domani, il burqa anche alle donne occidentali sottomesse al termine di una perduta guerra di civiltà?
E’ chiaro che, posta in questi modi, la questione afghana poteva avere un solo tipo di risposta possibile. Vogliamo la pace, vogliamo combattere il terrorismo e i suoi sponsor talebani, quindi la missione internazionale è giusta e doverosa.
Però poi passano gli anni. Uno, due, tre… fino ad otto. E tutte le fonti più autorevoli, dall’Onu alle organizzazioni indipendenti fino ad¬dirittura al comandante delle forze armate statunitensi in Afghanistan, McChrystal, parlano di una situazione disastrosa, di abusi, corruzioni e peggio ancora e di una popolazione che, alla fine, torna a simpatizza¬re per i vecchi talebani e di vecchi nemici dei talebani che adesso hanno preso le armi e combattono contro il governo Karzai sostenuto dalla coalizione internazionale.
Allora diventa legittimo e doveroso domandarsi: dopo tanti anni di intervento militare è giusto discutere dell’attualità, della strategia e degli obiettivi della missione internazionale? Ci si potrà nascondere per sempre dietro la retorica delle frasi pompose e ad effetto per non affrontare la realtà per quella che è e porvi rimedio? I costi economici, ma soprattutto umani, che si stanno pagando per l’Afghanistan sono necessari? Cosa ne ricaviamo in cambio? Cosa siamo riusciti a fare?
Il problema, a nostro avviso, è quello di sgomberare il terreno dalla retorica, dalla propaganda e della mistificazioni per lasciare spazio a una riflessione seria e critica, ma soprattutto priva di preconcetti. Si può essere critici per come sono andate in questi otto anni le cose in Afghanistan senza per questo essere sostenitori del terrorismo o dei talebani; senza per questo mancare di rispetto ai soldati, senza per que¬sto amare di meno il nostro paese o la democrazia rispetto a quanti hanno acriticamente sostenuto per otto anni tutte le scelte dell’ammi¬nistrazione Bush e, soprattutto, i suoi metodi.
Se una persona sta male, possiamo essere tutti d’accordo che sia meglio curarla piuttosto che lasciarla morire. Ma se dopo molto tempo le cure non solo non hanno effetto, ma hanno provocato il contagio di altre persone, quantomeno si dovrebbe cambiare cura o cambiare me¬dico o porre al riparo la popolazione dal rischio dei contagi.
Quando un’azienda sbaglia una strategia industriale o imprendito¬riale, cerca di cambiare la strategia, manda a casa il managment, se è animata da buone intenzioni e non solo da biechi interessi speculativi cerca di trovare soluzioni anche coinvolgendo i lavoratori. Difficile che veda per otto anni i suoi bilanci in rosso senza cambiare una virgola.
Esempi paradossali? No. Perché tutte le analisi dimostrano il so¬stanziale fallimento di otto anni di intervento in Afghanistan. E se l’amministrazione Obama ora comincia a porsi qualche dubbio, altro-ve - segnatamente qui in Italia - non ci si confronta troppo con la realtà ma, appunto, ci si nasconde nella retorica e nella pubblica indigna¬zione. Salvo poi, si potrebbe essere facili profeti, accodarsi in maniera passiva se gli Stati Uniti alla fine decidessero di cambiare radicalmente strategia. Esattamente come è accaduto negli anni di Bush, le cui gesta - dalla guerra preventiva, ai rapimenti, alle torture, alla negazione dei diritti umani e civili - hanno visto cantori plaudenti che solo adesso, con Obama presidente, cominciano a ricordarsi dei diritti e a prendere le distanze dagli eccessi. I lettori più attenti avranno notato che i toni di
E questo editoriale, come del resto quelli del saggio introduttivi, sono più appassionati del solito. Più da requisitoria (o da arringa) che da com¬passato saggio scientifico, come quelli generalmente ospitati. È vero. Ma perché, vorrei ripeterlo una volta di più, intorno all’Afghanistan e alla missione internazionale va rotto l’accerchiamento mediatico, pro¬pagandistico che sta impedendo una seria riflessione. Vanno sradicati i luoghi comuni che vengono utilizzati come sua giustificazione. Soprat-tutto, consci che la nostra rivista è solo una piccola voce, stimolare una riflessione più generalizzata e scelte più consapevoli.
Nello stesso tempo, chiarito il senso dei toni, va detto che in que¬sto numero non si è rinunciato ad un solo briciolo di scientificità ma, al contrario, le pagine afghane sono costruite attraverso documenti e rapporti provenienti da fonti autorevoli e non di parte.
Proprio lì ci sono quei dati e quelle analisi troppo spesso sottaciute o minimizzate o utilizzate solamente in parte. Ad esempio uno dei rapporti maggiormente utilizzati per la redazione di questo numero è quello scritto dal generale McChrystal, comandante delle forze ame¬ricane in Afghanistan. Rapporto mediaticamente diventato noto sola¬mente sulla base di un principale elemento: la richiesta di un maggior numero di truppe per avere maggiori possibilità di vincere militar¬mente.
La parte meno nota di cui praticamente non si è parlato, ma assai più interessante ai nostri fini, è quella analitica, nella quale il generale ha elencato uno ad uno gli errori del governo e della missione Isaf e ha spiegato perché la popolazione non ha fiducia in Karzai e sempre più preferisce i talebani. Della seconda parte non si è discusso. Ossia: cosa fare per pacificare un paese dopo otto anni di guerra. Eppure gli spunti dati dal generale statunitense erano molti.
Del resto, sempre proseguendo sull’analisi partendo dalle fonti più autorevoli, abbiamo scelto di mettere a confronto il documento del generale McChrystal, scritto nel settembre del 2009, con il rapporto sul¬l’Afghanistan divulgato dal segretario generale dell’Onu nel settembre del 2007. La cosa sorprendente, come è evidenziato nel saggio introduttivo, è che le emergenze evidenziate nel 2007 erano le stesse messe in rilevo nel 2009 come giustificazione dei fallimenti. In altri termini questa analisi comparativa dimostra come negli ultimi due anni, oltre a combattere militarmente i talebani (con risultati altalenanti) su tutto il resto i risultati sono stati scarsi, se non insufficienti o, perfino, si
potrebbe dire che la situazione sia peggiorata. La domanda legittima, per tornare all’esempio del malato che non guarisce, è se qualcuno abbia mai in passato - o sperabilmente voglia farlo in futuro- abbia subordinato il ruolo della missione militare al raggiungimento degli obiettivi democratici, umanitari ed economici.
Altra fonte non sospettata di collusione con i terroristi e i talebani, utilizzata per questo numero, è il generale Curtis E. Lemay, capo di stato maggiore dell’aeronautica degli Stati Uniti. Il quale - nel saggio che pubblichiamo - si pone - da militare e da comandante dell’aviazione – un problema di non poco conto: i bombardamenti sono necessari per vincere militarmente la guerra afghana. Ma i bombardamenti provocano vittime civili, aumentano l’odio della popolazione verso le forze internazionali e si traducono in una sconfitta politica.
Senza girarci intorno, è questo il problema dei problemi. L’illusione dei bombardamenti chirurgici e delle bombe intelligenti, grande strumento propagandistico ai tempi della prima guerra del golfo, è tramontata da tempo. Ora c’è da fare, anche nei confronti dell’opinione pubblica, i conti con i morti veri e con l’odio della gente, altrettanto vero.
Ovviamente, dal suo punto di vista, Lemay ipotizza due soluzioni: una teoricamente condivisibile, l’altra poco convincente e poco realistica. La prima è quella di modificare le regole di ingaggio per ridurre al massimo gli “effetti collaterali”. E si tratta già di una presa d’atto e della premessa di una nuova filosofia, rispetto alle precedenti che te¬nevano solo in considerazione l’obiettivo militare senza troppo curarsi del resto. La seconda è quella di fare una grande azione di contro-pro-paganda, utilizzando la radio (l’84% degli afghani ne possiede una) per sostenere che la colpa della morte dei civili è dei talebani che si fanno scudo della popolazione e cercano strumentalmente l’ “incidente” per alimentare l’odio.
Il dato più interessante è che il generale Lemay, al pari del generale McChrystal, ha affermato che l’odio e l’insofferenza nei confronti delle forze militari internazionali sta crescendo. Ossia: dopo otto anni di missione militare e di missione Onu per portare pace, democrazia e benessere, l’odio nei confronti dei liberatori aumenta. Si può dire che il medico stia sbagliando cura? O c’è un obbligo non scritto a continuare così senza modificare nulla? Quanto alla droga, abbiamo pubblicato l’indagine dell’Undoc (Ufficio delle Nazioni Unite contro droga e crimine) pubblicato nel settembre del 2009. Si tratta di cifre e di un resoconto delle attività di quell’ufficio, che sono altalenanti. Ma su tutto emergono due elementi: “L’abbassamento dei prezzi - è scritto nel documento - è conseguente dei crescenti livelli di produzione, che si ritiene superi ormai la domanda di oppio e derivati sul mercato illecito”. Quindi il calo dei prezzi e della relativa produzione che si è registrato ultimamente è solo una “correzione di mercato” dovuta al fatto che in Afghanistan la produzione e il traffico di droga è così vasto che lo stesso mercato ha difficoltà ad assorbire e smerciare tutta la produzione. Più chiaro di così non si può. Dopo otto anni di intervento internazionale il paese che rifornisce di oppio quasi tutto il pianeta, continua a farlo.
Oltre a ciò, tra il 2002 e il 2007, i sequestri di droga si sono attestati tra l’1% e il 2% della produzione. Nel 2008 le percentuali dei sequestri sono state le stesse. Ciò vuol dire che nonostante la produzione di droga sia aumentata largamente, circa il 98% raggiunge indisturbata il mercato illecito internazionale. Si può considerare un successo o un fallimento?
Su queste base e utilizzando questi documenti - oltre alla straordinaria testimonianza di Ennio Remondino, grande inviato di guerra, capace grazie all’esperienza e all’intuito, di cogliere al volo molte questioni, ben prima che diventino freddo oggetto di discussione degli analisti - abbiamo preparato il dossier Afghanistan. Nella speranza che se letto, analizzato, criticato e discusso nel merito, senza partire dai pregiudizi, ma riflettendo serenamente su cosa sia meglio fare, qua¬li siano le strategie migliori per contrastare il terrorismo, a cosa ser¬va l’impegno - economico e umano - della missione militare. Tenendo conto che dopo otto anni l’Afghanistan è praticamente all’anno zero.
Nelle altre sezioni della rivista abbiamo ospitato due saggi di Simone Vernacchia e Lorenzo Valeri sulla sicurezza informatica e la protezione delle infrastrutture critiche, nonché un intervento di Alberto Crespi, pregiatissimo critico cinematografico, sull’intelligence nel cinema.
Tra i documenti abbiamo pubblicato quelli desecretati dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, sui metodi utilizzati dalla Cia per interrogare i sospetti di terrorismo.
http://www.cesint.orgEdited by Claudio Bozzacco - 22/12/2009, 14:55