Lingua, Etimologia e Società.

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view post Posted on 10/8/2009, 09:19
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Testo di A. Marco reperito online


Lusso-lussuria-lussureggiante-lussazione: una serie di termini in fila come i vagoni di un treno m’investe e mi chiede di render conto di quanto siano importanti le parole, di quanto risuonino nel nostro immaginario composito, di come riescano a rifrangere concetti comuni, di quante immagini contengano e a loro volta alimentino nelle visioni di questa surmodernità impazzita e inconcepibile. Mi affido ai significanti, nei quali i significati si stratificano, cambiano e si connotano in modi diversi, perché la lingua raffigura quello che una società pensa di se stessa, al punto che a volte persino l’etimologia serve a raccontare i sensi depositati nel tempo del linguaggio e a farli risuonare nella loro capacità di scavare nel profondo, di dirci anche cose inaspettate su noi stessi.

Uno per uno, i vagoni di quel treno raccontano allora che è proprio “lussuria" (luxuria-ae) il termine da cui deriva la parola “lusso” in diverse lingue correnti. E che luxuria in latino vuol dire “esuberanza, eccesso, sovrabbondanza” (nella vegetazione, da cui “lussureggiante”), diventando, poi, in senso traslato, “fasto, lusso, profusione, sontuosità”, ma anche “mollezza, vita voluttuosa, sfrenatezza, intemperanza, lascivia” (Calonghi). Lo percepiamo quasi a naso, intuitivamente, che il lusso abbia a che vedere con un che di molle e depravato, da un lato, così come con un tocco di piacere e desiderio, dall’altro, e, ancora, con un senso di sovrabbondanza e di opulenza nelle forme e nei segni: tutto ciò che la “lussuria” gli consegna in eredità quanto a contenuti, simbologie e stilemi. Le immagini del lusso sono contenute certo negli scenari del declino imperiale della tarda romanità, ma anche in quelli della scena barocca; il lusso ha il tono della inoperosità pomposa e cortigiana di Versailles, ma anche la forza del desiderio che eccede il bisogno e che, tra sanzioni moralistiche e leggi suntuarie, gli ha sempre dato modo nella storia di emergere come motivo profondo ed oscuro. Serve ancora al potere, il lusso? Le leggi suntuarie del passato hanno rappresentato in realtà dei dispositivi di regolazione delle gerarchie sociali e un modo attraverso cui la limitazione decretata permetteva comunque alle classi superiori di accedere ai segni distintivi del comando mostrando così la stretta genealogia inscritta nei rapporti tra discorso e potere.

Ben lo capirono quei filosofi settecenteschi, da Diderot a Montesquieu a Condillac a Mandeville, che al lusso dedicarono trattati e polemiche. Ben lo spiegò il sociologo tedesco Werner Sombart, che agli inizi del ‘900 dimostrò come il lusso sia stato un motore fondamentale nell’accumulazione originaria capitalistica, a dispetto di ogni weberiana convinzione riguardo l’indole “calvinistica” e risparmiatrice della borghesia. E tuttavia la sfera economica non spiega completamente il vulnus sull’individuo, il fatto che anche nelle crisi più nere del mondo, il lusso - oro, paure e beni rifugio, rischio ed eccesso, con una metafora: Titanic e champagne - sia stato sempre d'attualità, sia pure in forma scomoda, scorretta, apparentemente amorale.

Che il lusso, allora, non abbia anche a che vedere con quella “lussazione”, che - certo - l’etimologia tiene ben lontana dai suoi universi di discorso, ma che, esibendo un “mettersi di traverso”, un interrompere, uno “scivolare altrove”, dice del lusso come di un piacere che esorbita dal quotidiano e che eccita i sensi e il sensibile rispetto alla media del vivere e del sentire? Qualcosa che, per esempio, dal punto di vista estetico ha modo di realizzarsi attraverso il meccanismo della amplificazione, della esagerazione eccessiva delle forme e della preziosità immotivata di oggetti e ambienti, tali da farne risultare ingombranti, barocchi, spesso kitsch, i segni in un’enfasi straniante che pervade spesso sia l’idea classica sia alcune visioni contemporanee del lusso. O che, viceversa, come accade soprattutto oggi, punta sulla “sottrazione” quasi zen di ogni eccesso ed iperbole, a condizione però di una immaterialità diffusa - che si chiami iper-tecnologia o benessere - attraverso cui il lusso contemporaneo si esprime come vera e propria “lussazione” di ogni serialità “democratica” e globalizzata, e come personalizzazione rara. Si pensi agli interni spogli di forme, ma carichi di intelligenza in bit incorporati, della domotica; alla cura del corpo ricercata in tempi sospesi e in luoghi separati dal chiasso mondano; all’ozio, oggi raro come un prezioso diamante.

E’ possibile ritrovarli, e dove, questi luoghi, questi, tempi, questi spazi? Ha ancora senso, e a che proposito, parlare di lusso, se oggi – come ha scritto recentemente Gillo Dorfles - “la raffinatezza, l'anticonformismo, l'originalità, difficilmente si alleano al lusso, che sempre di più si allontana dalla ‘vera arte’ per decadere a equivalente di ricchezza sfacciata, ‘nouveaurichisme’, sguaiatezza di magnati analfabeti”. Negli ultimi due decenni dello scorso secolo, la parola “lusso” ha ottenuto piena cittadinanza all’interno del lessico economico e finanziario: poli del lusso, beni di lusso, immagini e segni di lusso – corpi, merci, automobili, gioielli, alta moda, alta cucina, alto turismo – sfrecciano come palline impazzite in un flipper di cui fanno accendere a ogni colpo una luce accecante. A volte attraggono, come una pietra rara: pura “cosa”, nella sua trasparente e infernale materialità. A volte sono repellenti, come un barboncino tosato, imparruccato e decorato con un collare in platino, come un kalashnikov placcato in oro, come un tappeto in vera pelle di leone in un appartamento a Manhattan, come un telefono cellulare con i tasti in rubini e una segreteria in grado di prenotare i posti all’Opera, come un’isola finta a forma di palma nell’oceano di fronte a Dubai.

La parola “lusso” contiene la forza icastica del dissidio tra ciò che si mantiene in eterno e ciò che si consuma. Se il lusso è l’esatto opposto della moda, è tuttavia – come la moda – fondato su ciò di cui non c’è “materialmente” bisogno, e ancora più oltre, è fondato sullo spreco, sull’eccesso, su un surplus infinito che evoca la distruzione, ossia tutto il contrario dell’eternità. Ora, questa distruzione, questo potenziale infinito potlàc - che un tempo apparteneva alla sfera del potere ed era anzi un segno esplicito dell’esercizio e della disciplina del comando – oggi è incluso quasi “naturalmente” (cioè “miticamente”, come direbbe Barthes) in ogni cosa: è il valore aggiunto della merce - di ordine eminentemente comunicativo - assegnato al marketing; è la quantità di dati accatastati nell’universo della rete; è la memoria totale circolante nel nostro “hard-globo” (come un hard-disk costantemente esposto alla evanescenza del “soft-world”); è un’assicurazione sulla vita che rende il nostro stesso corpo moneta vivente; è la continua spettacolarizzazione del potere politico e militare affidata a stilisti, personal-trainer o scenografi di Hollywood. Volgarità! Che il lusso stia uccidendo se stesso proprio mentre si compie?

C’è altro, però in questo continuo tiro al rialzo che il senso del lusso mette in moto: e questo altro è il rapporto fra lusso e terrore, fra lusso e terrorismo, fra lusso e morte delle razionalità, fra lusso e guerra. Proprio nell’epoca in cui tutti i valori sono stati duplicati in segni, il lusso sembra mostrare prepotentemente, e non solo metaforicamente, la “durezza” delle cose nel loro realismo estremo. Come se giocasse due partite su due tavoli, mentre su uno persegue l’armonia dei sensi (“lusso, calma e voluttà” come nei celebri versi di Baudelaire), sul secondo tavolo il lusso sbatte in faccia la potenza e l’oscurità dello spreco di energia in cui si origina e la smisurata violenza del sacrificio a costo del quale si rende possibile. Da un lato mostra le torri diamantine dei suoi templi, dall’altro richiama per contrasto la forza miserevole della “nuda vita”. La sua potenza è allora la stessa del terrorismo. L’immagine, quella lancinante delle Twin Towers spezzate e in frantumi, che come ha scritto Slavoj Žižek, è stata “un’immagine, un’apparenza, un ‘effetto’ che, al tempo stesso, trasmetteva ‘la cosa in sé’”. Proprio come fa il lusso.

Che senso ha dunque parlarne proprio quando le miserie del mondo suggerirebbero più “corretti” argomenti di discussione? Scriveva Bataille, alla fine della sua opera moralisticamente blasfema intitolata La parte maledetta, che il nuovo essere umano a cui appartiene oggi il lusso è “il miserabile che si stende per terra e disprezza”. E’ una frase che cerca cittadinanza in questo taglio di secolo, in cui il lusso insegue parole come unicità e benessere, eternità e spreco, viaggio e ozio, nuda vita e dispendio, e in cui rende vivo un valore talmente esorbitante, al punto di essere “senza valore”.
 
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view post Posted on 13/7/2010, 09:25
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Così rivive il dialetto montellese

E’ una pubblicazione certamente preziosa il vocabolario Montellese-Italiano di Virginio Gambone, edito da La Scuola di Pitagora Editrice in Napoli. A illustrarla nel dettaglio, sottolineandone il ruolo centrale nel percorso di salvaguardia delle lingue locali, il sacerdote Andrea Cerrone, dirigente scolastico in pensione

Allorquando ho avuto fra le mani il Vocabolario Montellese-Italiano di Virginio Gambone, mio ex alunno nelle classi ginnasiali, rilevandone “il peso”, ho subito tirato una conclusione: Virginio ce l’ha “messa tutta”.
Non che non fossi in attesa che la sua pubblicazione “vedesse la luce”, ma con tutta la stima per la sua intelligenza, la sua determinazione, la sua competenza, trattandosi di un vocabolario riguardante il dialetto di una comunità di non molte migliaia di abitanti – in maggioranza e da tempo ormai completamente “italianizzata” – non potevo supporre che potesse “venir fuori” un’opera così poderosa: sono stati riportati circa 10.000 lemmi, corredandoli in larga maggioranza da indicazioni afferenti la semantica, la fonetica, la morfologia, la sintassi, di cui, anzi, in capitoli a parte, vengono richiamati regole e indicatori grafici.
È un lavoro serio, che ha impegnato l’Autore per molti anni, come egli stesso attesta, tra ricerche d’archivio, tra carte notarili e non, tra ricerca di “testimoni”, specialmente per i linguaggi settoriali, da quello dei segantini a quello dei bovari o pastori, da quello dei panificatori a quello dei contadini, dei muratori e così via. Persino il latino ecclesiastico, secondo la pronunzia e il particolare significato che gli attribuiva la gente che il latinorum non conosceva o addirittura non era scolarizzata – a volte i termini deformati muovono a ilarità – trova cittadinanza in quest’opera, che è stata definita enciclopedia del Montellese.
Nella prefazione si coglie che il suo “interesse” per il dialetto risale all’infanzia, allorquando alle “elementari”, chiedendosi i corrispettivi italiani di vocaboli montellesi, quelli non raramente gli apparivano evanescenti, poco pregnanti, se non addirittura “falsi”.
Senza volerlo aveva colto uno degli elementi caratteristici di ogni dialetto (migliore e più efficace per espressività) e di quello montellese in particolare modo. Saranno, credo, questa inconsapevole scoperta (la lingua italiana – lo sappiamo tutti – sa un po’ d’artificio) e il suo amore per la terra natia che lo hanno “portato” oggi a fare questo bel regalo a Montella e, sia permesso, alla dialettologia in generale; regalo che è unico nel suo genere, non foss’altro per ampiezza e completezza, non trovandosi in loco e per molte e molte miglia intorno un lavoro del genere, come ha ben evidenziato il prof. Antonio Palatucci nella presentazione del volume.
Ma la validità del lavoro di Gambone – al di là della “ricchezza” con cui ha corredato i singoli lemmi – si rivela, a nostro avviso, anche in taluni, pur se rapidi confronti, con i dialetti dei centri viciniori. Ha “aperto”, così, un altro fronte culturale: pur nella comune identità di base, i singoli centri presentano – nonostante la prossimità – elementi di distinzione rimarchevoli, che ci dicono, sì, di alcune diverse presenze di “colonizzatori”, ma anche che una loro migliore individuazione sarebbe possibile ove si facesse un lavoro a “tappeto” sulle singole realtà linguistiche, soprattutto laddove manchino o non siano ben riconoscibili lr “relative impronte”. Che Virginio ci possa fa questo regalo? Ce lo auguriamo!
Un’ultima nota mi par giusto fare: Gambone si dimostra attento a tutti i dialetti. Ha ascoltato con piacere tutti i dialettofoni che ha incontrato lungo la sua strada e i suoi movimenti: comprende il napoletano, il calabrese, il siciliano, è persino il canavesano e il friulano. E di queste parlate conosce canti che, per diletto, esegue con voce intonata ed emotivamente coinvolta, e tra essi specialmente i friulani.
E allora comprendiamo ancora una volta che la sua è una ricerca che va ben al di là dei problemi linguistici, che pure affronta con solida dottrina: egli sembra essere alla ricerca della “poesia” di fondo di una parlata, forse dello “spirituale” da cui ha preso origine un linguaggio verace, senza lenizioni e ammanti di sorta. E mi pare guidato in ciò soprattutto dal pensiero di Giambattista Vico, che egli più di una volta cita.
 
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view post Posted on 14/3/2011, 19:50
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L'Italia "dialettale" dei localismi culturali

di Tano Siracusa

Non tutti gli italiani parlano in italiano. In questo paradossale anniversario dell’Unità, dove alla sinistra tocca promuovere la retorica del Risorgimento e non l’analisi e la critica delle sue insufficienze, è forse il caso di ricordarcelo. O meglio: molti l’italiano lo parlano poco e male, pochi lo parlano bene, tanti non lo parlano affatto e usano un codice linguistico territoriale, che sarebbe troppo sbrigativo perfino considerare regionale.
Il siciliano che si parla a Catania, ad esempio, è molto diverso, e non solo foneticamente, da quello che si parla a Palermo , e a Palermo non si parla la stessa lingua a Ballarò e in viale Lazio. D’altra parte sia i film di Ciprì e Maresco che Gomorra erano sottotitolati, e non solo a beneficio del pubblico nazionale. Uno studente universitario napoletano che vive a Forcella, nel cuore di Napoli, mi diceva che non capiva tutto della lingua che usano a Scampia, dove pure ogni tanto si reca, e sua madre, cinquantenne, sempre vissuta a Napoli, non capiva molte battute del film di Garrone. Se il paese non è ancora del tutto unificato linguisticamente, non lo è neppure culturalmente. Sotto la superficie di un’italianità televisiva e di una omologazione dei desideri e degli orizzonti di senso che è ormai transnazionale, legata alle dinamiche dell’economia globalizzata più che al ruolo della statualità italiana, permangono strati vasti e profondi di localismo linguistico e culturale. Che a loro volta dall’unificazione nazionale prima e dall’avvento della modernità mondializzata poi sono stati deformati e corrotti, impoveriti, ma non del tutto assorbiti. In Sicilia una delle manifestazioni più spettacolari di localismo culturale è costituita dalle feste religiose, e più da quelle patronali che dalle processioni e dai riti della settimana santa. Queste feste sono rigorosamente ‘dialettali’, e talvolta lasciano riconoscere nella complessità dei loro segni tracce di un lontanissimo passato precristiano, quando da queste parti si parlava greco o la misteriosa lingua dei sicani. E se la lingua che si ascolta fra le persone in queste feste è pressoché esclusivamente il siciliano, quello di quel particolare paese, quel particolare impasto di greco, latino, arabo, spagnolo, francese, in alcune zone di lombardo e albanese, la religiosità che vi si esprime presenta spesso coefficienti elevati di sincretismo, innesti cattolici su forme cultuali preesistenti alla cristianizzazione bizantina dell’isola e legati ai cicli delle stagioni e dell’agricoltura.
Si sbaglierebbe a considerare questi fenomeni culturali e la stessa resistenza dei dialetti come espressioni residuali di un mondo premoderno, destinato presto a scomparire. Nella nostra penisola si sono avvicendate e mescolate lingue, culture, popoli, storie molto diverse, che il grande magma della modernità non è riuscito a dissolvere del tutto e che al suo interno continuano ad operare. L’Italia è ancora oggi piena di queste differenze. Che questa ricchezza, questa complessità dei localismi culturali e linguistici possa produrre una disunione semplificatrice, un separarsi delle differenze, piuttosto che favorire una superiore forma di sintesi nazionale, è forse la questione centrale di questo centocinquantesimo compleanno italiano. E non è facile immaginare come potrà essere il duecentesimo compleanno, neppure se potrà essere celebrato. Di sicuro il contenuto e il livello del dibattito politico su questi temi, imposto dal leghismo, non lascia ben sperare.
 
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view post Posted on 22/5/2011, 17:29
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Le regole del discorso perfetto, maestri di ieri e di oggi



Ah saperlo! Se si riuscisse a scoprire come si deve parlare agli altri per convincerli a fare quello che noi desideriamo, avremmo in tasca una sorta di pietra filosofale, capace di trasformare in oro i metalli vili, o quanto meno un potere immenso. Conquistare voti, portare sulle nostre posizioni coniugi ostili e recalcitranti, indurre all'acquisto di determinati beni i potenziali compratori e altro ancora: tutto ciò sarebbe alla nostra portata.

Alla titanica impresa di carpire il segreto del «discorso perfetto», ovvero di quell' eloquio che seduce chicchessia, si è accinto l'«Institute for Social Research» dell'Università del Michigan, Usa, una delle più prestigiose strutture a livello internazionale nel campo delle scienze sociali. Un gruppo di ricercatori capeggiato da Jose Benki, noto psicolinguista, ha messo sotto la lente 1380 discorsi introduttivi fatti al telefono, da un team di 100 uomini e donne appositamente arruolato, per convincere gli interlocutori ad accettare la partecipazione a un'inchiesta. Una simulazione, insomma, per riuscire a capire con quali modalità o qualità oratorie possiamo trasformarci in Ciceroni, ovvero in persuasori più o meno occulti del nostro prossimo.

Per solito si ritiene che il parlare a mitraglia, alla Mentana, sia l'arma più adatta per plagiare l'ascoltatore. Nient'affatto: «Gli intervistatori che emettono 3,5 parole al secondo sono quelli che hanno registrato un più alto tasso di successi con la gente - dice Benki - mentre quelli che parlavano correndo come lepri o quelli lenti come tartarughe si sono dimostrati meno efficaci». I ricercatori americani hanno analizzato diverse variabili dei discorsi, come la scorrevolezza, la velocità, il timbro. Un'altra convinzione molto diffusa e altrettanto errata è quella per cui l'oratore eccellente nell'arte della persuasione è colui che sa sfoggiare una panoplia di toni, da quello più seducente e accattivante, a quello più imperativo e sferzante. Grave errore: «Troppe variazioni suonano artificiali, snervanti e faticose - osserva sempre Benki -. L'intervistato si scoccia e butta giù il telefono».

Quanto contano invece i timbri, una voce più squillante o più bassa? Innanzitutto, notano Jessica Broome, Frederick Conrad e Robert Groves, altri studiosi che hanno partecipato all'esperimento, il timbro è influenzato dalla dimensione del corpo e della laringe: maggiore è la stazza più cavernosa sarà la voce. Inutile aggiungere che, in generale, gli uomini hanno voci più profonde di quelle delle donne. Ma anche a questo proposito dall'indagine emerge una sorpresa «controintuitiva»: mentre per il «sesso forte» una vocalità da baritono fa conquistare un maggior numero di adepti di una acuta, per quel che riguarda signore e signorine, invece, la diversità di timbro è irrilevante. Parlare senza prendere fiato oppure prendersela comoda? A quanto pare gli intervistatori che nel corso della loro esposizione fanno numerose e frequenti piccole pause sono più suadenti di quelli dotati di un eloquio superfluente.

Spiega Benki: «Per natura, comunicando le persone fanno spontaneamente quattro o cinque pause ogni minuto». Ne consegue che, se si vuole avere il fascino di un Demostene, è meglio avere delle esitazioni che suonino naturali piuttosto che risultare artefatti come cattivi attori che recitano a raffica la parte imparata a memoria. Nessuno deve disperare, quindi: tutti possono riuscire a ipnotizzare i singoli e le folle, anche coloro che sono un po' imbranati. L'arte oratoria è qualcosa che si può imparare e per la quale a quanto pare valgono maggiormente le forme dell' esposizione che i contenuti: i segreti per accedervi ce li svela in parte la nuova ricerca americana - sono annunciati ulteriori sviluppi - ma anche l'esperienza del massimo oratore dell'antica Grecia. Non ci sono ostacoli insuperabili: Demostene, in fin dei conti, era balbuziente.
 
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