| Testo di A. Marco reperito online
Lusso-lussuria-lussureggiante-lussazione: una serie di termini in fila come i vagoni di un treno m’investe e mi chiede di render conto di quanto siano importanti le parole, di quanto risuonino nel nostro immaginario composito, di come riescano a rifrangere concetti comuni, di quante immagini contengano e a loro volta alimentino nelle visioni di questa surmodernità impazzita e inconcepibile. Mi affido ai significanti, nei quali i significati si stratificano, cambiano e si connotano in modi diversi, perché la lingua raffigura quello che una società pensa di se stessa, al punto che a volte persino l’etimologia serve a raccontare i sensi depositati nel tempo del linguaggio e a farli risuonare nella loro capacità di scavare nel profondo, di dirci anche cose inaspettate su noi stessi.
Uno per uno, i vagoni di quel treno raccontano allora che è proprio “lussuria" (luxuria-ae) il termine da cui deriva la parola “lusso” in diverse lingue correnti. E che luxuria in latino vuol dire “esuberanza, eccesso, sovrabbondanza” (nella vegetazione, da cui “lussureggiante”), diventando, poi, in senso traslato, “fasto, lusso, profusione, sontuosità”, ma anche “mollezza, vita voluttuosa, sfrenatezza, intemperanza, lascivia” (Calonghi). Lo percepiamo quasi a naso, intuitivamente, che il lusso abbia a che vedere con un che di molle e depravato, da un lato, così come con un tocco di piacere e desiderio, dall’altro, e, ancora, con un senso di sovrabbondanza e di opulenza nelle forme e nei segni: tutto ciò che la “lussuria” gli consegna in eredità quanto a contenuti, simbologie e stilemi. Le immagini del lusso sono contenute certo negli scenari del declino imperiale della tarda romanità, ma anche in quelli della scena barocca; il lusso ha il tono della inoperosità pomposa e cortigiana di Versailles, ma anche la forza del desiderio che eccede il bisogno e che, tra sanzioni moralistiche e leggi suntuarie, gli ha sempre dato modo nella storia di emergere come motivo profondo ed oscuro. Serve ancora al potere, il lusso? Le leggi suntuarie del passato hanno rappresentato in realtà dei dispositivi di regolazione delle gerarchie sociali e un modo attraverso cui la limitazione decretata permetteva comunque alle classi superiori di accedere ai segni distintivi del comando mostrando così la stretta genealogia inscritta nei rapporti tra discorso e potere.
Ben lo capirono quei filosofi settecenteschi, da Diderot a Montesquieu a Condillac a Mandeville, che al lusso dedicarono trattati e polemiche. Ben lo spiegò il sociologo tedesco Werner Sombart, che agli inizi del ‘900 dimostrò come il lusso sia stato un motore fondamentale nell’accumulazione originaria capitalistica, a dispetto di ogni weberiana convinzione riguardo l’indole “calvinistica” e risparmiatrice della borghesia. E tuttavia la sfera economica non spiega completamente il vulnus sull’individuo, il fatto che anche nelle crisi più nere del mondo, il lusso - oro, paure e beni rifugio, rischio ed eccesso, con una metafora: Titanic e champagne - sia stato sempre d'attualità, sia pure in forma scomoda, scorretta, apparentemente amorale.
Che il lusso, allora, non abbia anche a che vedere con quella “lussazione”, che - certo - l’etimologia tiene ben lontana dai suoi universi di discorso, ma che, esibendo un “mettersi di traverso”, un interrompere, uno “scivolare altrove”, dice del lusso come di un piacere che esorbita dal quotidiano e che eccita i sensi e il sensibile rispetto alla media del vivere e del sentire? Qualcosa che, per esempio, dal punto di vista estetico ha modo di realizzarsi attraverso il meccanismo della amplificazione, della esagerazione eccessiva delle forme e della preziosità immotivata di oggetti e ambienti, tali da farne risultare ingombranti, barocchi, spesso kitsch, i segni in un’enfasi straniante che pervade spesso sia l’idea classica sia alcune visioni contemporanee del lusso. O che, viceversa, come accade soprattutto oggi, punta sulla “sottrazione” quasi zen di ogni eccesso ed iperbole, a condizione però di una immaterialità diffusa - che si chiami iper-tecnologia o benessere - attraverso cui il lusso contemporaneo si esprime come vera e propria “lussazione” di ogni serialità “democratica” e globalizzata, e come personalizzazione rara. Si pensi agli interni spogli di forme, ma carichi di intelligenza in bit incorporati, della domotica; alla cura del corpo ricercata in tempi sospesi e in luoghi separati dal chiasso mondano; all’ozio, oggi raro come un prezioso diamante.
E’ possibile ritrovarli, e dove, questi luoghi, questi, tempi, questi spazi? Ha ancora senso, e a che proposito, parlare di lusso, se oggi – come ha scritto recentemente Gillo Dorfles - “la raffinatezza, l'anticonformismo, l'originalità, difficilmente si alleano al lusso, che sempre di più si allontana dalla ‘vera arte’ per decadere a equivalente di ricchezza sfacciata, ‘nouveaurichisme’, sguaiatezza di magnati analfabeti”. Negli ultimi due decenni dello scorso secolo, la parola “lusso” ha ottenuto piena cittadinanza all’interno del lessico economico e finanziario: poli del lusso, beni di lusso, immagini e segni di lusso – corpi, merci, automobili, gioielli, alta moda, alta cucina, alto turismo – sfrecciano come palline impazzite in un flipper di cui fanno accendere a ogni colpo una luce accecante. A volte attraggono, come una pietra rara: pura “cosa”, nella sua trasparente e infernale materialità. A volte sono repellenti, come un barboncino tosato, imparruccato e decorato con un collare in platino, come un kalashnikov placcato in oro, come un tappeto in vera pelle di leone in un appartamento a Manhattan, come un telefono cellulare con i tasti in rubini e una segreteria in grado di prenotare i posti all’Opera, come un’isola finta a forma di palma nell’oceano di fronte a Dubai.
La parola “lusso” contiene la forza icastica del dissidio tra ciò che si mantiene in eterno e ciò che si consuma. Se il lusso è l’esatto opposto della moda, è tuttavia – come la moda – fondato su ciò di cui non c’è “materialmente” bisogno, e ancora più oltre, è fondato sullo spreco, sull’eccesso, su un surplus infinito che evoca la distruzione, ossia tutto il contrario dell’eternità. Ora, questa distruzione, questo potenziale infinito potlàc - che un tempo apparteneva alla sfera del potere ed era anzi un segno esplicito dell’esercizio e della disciplina del comando – oggi è incluso quasi “naturalmente” (cioè “miticamente”, come direbbe Barthes) in ogni cosa: è il valore aggiunto della merce - di ordine eminentemente comunicativo - assegnato al marketing; è la quantità di dati accatastati nell’universo della rete; è la memoria totale circolante nel nostro “hard-globo” (come un hard-disk costantemente esposto alla evanescenza del “soft-world”); è un’assicurazione sulla vita che rende il nostro stesso corpo moneta vivente; è la continua spettacolarizzazione del potere politico e militare affidata a stilisti, personal-trainer o scenografi di Hollywood. Volgarità! Che il lusso stia uccidendo se stesso proprio mentre si compie?
C’è altro, però in questo continuo tiro al rialzo che il senso del lusso mette in moto: e questo altro è il rapporto fra lusso e terrore, fra lusso e terrorismo, fra lusso e morte delle razionalità, fra lusso e guerra. Proprio nell’epoca in cui tutti i valori sono stati duplicati in segni, il lusso sembra mostrare prepotentemente, e non solo metaforicamente, la “durezza” delle cose nel loro realismo estremo. Come se giocasse due partite su due tavoli, mentre su uno persegue l’armonia dei sensi (“lusso, calma e voluttà” come nei celebri versi di Baudelaire), sul secondo tavolo il lusso sbatte in faccia la potenza e l’oscurità dello spreco di energia in cui si origina e la smisurata violenza del sacrificio a costo del quale si rende possibile. Da un lato mostra le torri diamantine dei suoi templi, dall’altro richiama per contrasto la forza miserevole della “nuda vita”. La sua potenza è allora la stessa del terrorismo. L’immagine, quella lancinante delle Twin Towers spezzate e in frantumi, che come ha scritto Slavoj Žižek, è stata “un’immagine, un’apparenza, un ‘effetto’ che, al tempo stesso, trasmetteva ‘la cosa in sé’”. Proprio come fa il lusso.
Che senso ha dunque parlarne proprio quando le miserie del mondo suggerirebbero più “corretti” argomenti di discussione? Scriveva Bataille, alla fine della sua opera moralisticamente blasfema intitolata La parte maledetta, che il nuovo essere umano a cui appartiene oggi il lusso è “il miserabile che si stende per terra e disprezza”. E’ una frase che cerca cittadinanza in questo taglio di secolo, in cui il lusso insegue parole come unicità e benessere, eternità e spreco, viaggio e ozio, nuda vita e dispendio, e in cui rende vivo un valore talmente esorbitante, al punto di essere “senza valore”.
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