| Gentili lettori il diritto non è una scienza esatta come la matematica. Non da la certezza di determinare il vero o il giusto assoluto. Dopo 3, 5 o 7 gradi di giudizio e anche dopo 30 o 40 anni di cause nemmeno il più illuminato giurista ha la certezza di aver fatto giustizia. Di non aver trascurato taluno in favore di talaltro oppure di aver perseguito Tizio dimenticandosi di Caio. O anche di non essersi perso nei labirinti dei codici. Infine una volta che una sentenza è passata in giudicato non è detto che poi sia eseguibile. Perché magari il principio che ha sancito non è coercibile. L'ottanta per cento della produzione giudiziaria è lavoro per gli addetti fine a se stesso. Spesso le controversie sono pilotate per attivare o disattivare altre dinamiche.
Gli addetti ai lavori sono persone normali che hanno bisogno di un reddito per far fronte alle normali necessità personali e familiari.
Ad Avellino in questi giorni hanno messo la toga a nuove persone. Quante di queste rispondono ad un'esigenza del territorio e quante altre dovranno fomentare i contenziosi per portare il pane a casa.
In un incontro con il Vescovo di Sant'Angelo dei Lombardi Pasquale Cascio si è parlato delle leggi e delle norme. L'attività legislativa non riesce a includere in tempo reale le dinamiche della società perché sono in continua evoluzione. Le norme vengono dopo il lentissimo e farraginoso lavoro delle commissioni parlamentari, dell'approvazione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Dopo di che prima che una legge venga firmata dal Presidente della Repubblica e venga pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ha bisogno di ulteriori passaggi, come nel caso dell'ultima riforma per la quale 5 anni non sono bastati.
Dal Fatto Quotidiano
Processi penali a rischio per la riforma dell’ordinamento penitenziario ‘congelata’. Oggi e domani gli avvocati penalisti si asterranno dalle udienze per protestare contro la mancata approvazione del decreto su cui si regge tutta la riforma, mentre l’Unione delle Camere penali ha organizzato una manifestazione a Roma. Solo pochi giorni fa l’appello lanciato al governo dall’Ucpi, da altre associazioni e da molti giuristi e personalità della società civile affinché l’Esecutivo approvi in via definitiva il testo “riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee”. Prima fra tutte quella del 2013 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il sovraffollamento delle carceri e le condizioni disumane di detenzione (sentenza Torreggiani). Da allora è iniziato un lungo percorso per arrivare a un testo, il cui esame finale è slittato a dopo le elezioni. Perché quando ci si avvicina al voto è difficile parlare di certi argomenti, come le pene alternative al carcere. Ecco perché a febbraio non è stato approvato dal governo Gentiloni il decreto cardine dell’intera riforma, quello più importante per il contrasto al sovraffollamento carcerario. Tutto congelato quindi, con il rischio che il testo non riesca più a mettere insieme la maggioranza in Parlamento e che si mandi all’aria un lavoro complesso durato anni. In prima fila per l’approvazione ci sono gli avvocati penalisti, sostenuti dall’associazione Antigone e da Rita Bernardini del Partito radicale che, insieme a migliaia di detenuti, ha attuato un lungo sciopero della fame.
IL PERCORSO PER LA RIFORMA PENITENZIARIA – La riforma è arrivata a un passo dal traguardo 42 anni dopo l’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario concepito nel 1975 che sostituiva il regolamento fascista del 1931. È stato un lungo percorso. A scuotere le acque più dei numeri che portarono Berlusconi a dichiarare lo stato di emergenza (nel 2010 nelle carceri italiane c’erano 68mila persone con un tasso di sovraffollamento al 170%, cioè cento posti per centosettanta detenuti) fu proprio la sentenza Torreggiani del 2013. L’allora ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri nominò due commissioni, quella presieduta da Mauro Palma (garante nazionale dei Diritti delle persone detenute) che doveva elaborare alcune proposte con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita nelle carceri e quella presieduta dal professore Glauco Giostra, chiamato a occuparsi della revisione normativa. Nel frattempo in Italia furono approvate diverse leggi che riguardano le misure alternative alla custodia cautelare e al ministero della Giustizia arrivò Andrea Orlando. Furono istituiti 18 tavoli di discussione a cui parteciparono i maggiori esperti italiani. I lavori si conclusero a maggio 2016: ne vennero fuori le linee guida poi tradotte in una legge delega approvata a giugno 2017. Tra i punti cardine i diritti dei detenuti stranieri, nuove regole per i minori e la semplificazione del ricorso a pene alternative al carcere. Il ministro Orlando nominò tre commissioni per elaborare i decreti. Solo che l’avvicinarsi delle elezioni politiche ha complicato tutto.
IL FRENO DI GENTILONI PRIMA DELLE ELEZIONI – Il primo decreto, che è anche quello su cui si regge tutta la riforma, è stato approvato dal governo il 22 dicembre scorso e trasmesso alle Commissioni delle due camere per il parere. Il testo amplia l’accesso alle misure alternative al carcere, sia innalzando il limite di pena per poter fruire dell’affidamento in prova ai servizi sociali, sia riformando l’articolo 4 bis che oggi vieta il ricorso a forme di pene alternative per alcuni reati, come quelli associativi come mafia e terrorismo, lo stupro di gruppo o la pedopornografia. Il decreto prevede, invece, l’esclusione delle pene alternative solo per i condannati per 41 bis. Nonostante abbia dato parere positivo, la Commissione Giustizia del Senato ha criticato proprio questo punto. Il governo Gentiloni avrebbe comunque potuto portare a casa l’approvazione definitiva sul decreto (senza accogliere i rilievi del Senato e stravolgere così il lavoro fatto dai 18 tavoli di discussione), passando attraverso un nuovo parere non vincolante delle commissioni. Le cose, però, non sono andate così. Nonostante le pressioni del ministro della Giustizia Orlando, ma tra i malumori di Lega e Fratelli d’Italia, nel corso del Consiglio dei ministri del 22 febbraio scorso sono stati approvati in via preliminare i decreti attuativi su lavoro, giustizia minorile e giustizia riparativa, mentre Gentiloni ha deciso di non licenziare quello principale, che disciplina il ricorso alle pene alternative rispetto al carcere. Con la promessa di occuparsene “in un prossimo Consiglio dei ministri”, dopo il voto.
“Alcuni decreti sono stati adottati, altri lo saranno nelle prossime settimane, tenendo conto delle indicazioni del Parlamento” ha dichiarato il premier che di sicuro sperava in un diverso esito elettorale. Ecco perché i sostenitori della riforma temono ora una definitiva battuta d’arresto sul testo che, tra le altre cose, prevede anche una maggior tutela del diritto all’assistenza sanitaria, equiparando l’infermità psichica a quella fisica. Perché ‘ufficialmente’ il governo non ha approvato il decreto perché occorreva altro tempo per apportare le modifiche alla riforma dell’articolo 4 bis, quello che non piaceva al Senato. E allora, l’alternativa al binario morto, potrebbe essere un testo meno incisivo e più ‘digeribile’ dagli oppositori. Per la gioia delle destre e di alcuni sindacati di polizia penitenziaria, come il Sappe, che ha già lanciato l’appello ai politici usciti vincitori dalla tornata elettorale affinché fermino la riforma.
Edited by Claudio Bozzacco - 16/3/2018, 19:36
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