| di Luigi Malabarba
E’ assai attendibile che quanto recuperato da Wikileaks corrisponda a quanto conservato negli archivi informatici del Pentagono. Si tratta concretamente del pochissimo che i comandi americani abbiano a parziale e pur contraddittorio conforto alla tesi del “tragico incidente”, in un luogo dove delle autobomba sarebbero ovviamente potute arrivare. Non importa se le fonti siano esponenti vicini ad Al Qaeda in carcere, che non è chiaro perché dovrebbero dare una mano agli Usa se non perché sotto tortura o comunque per finalità anche comprensibilmente diverse dalla ricerca della verità. La verità politica, che non potrà diventare verità giudiziaria per il boicottaggio americano alle indagini della Procura della Repubblica, è che è difficilmente confutabile che il plenipotenziario ambasciatore americano a Baghdad, John Dimitri Negroponte, abbia creato le circostanze del tragico incidente per metter fine alla linea negoziale italiana per la liberazione degli ostaggi, anche di altri paesi. E con successo, bisogna ammetterlo. Quello stesso Negroponte, teorico della guerra sporca dal Vietnam alla creazione del Battaglione 316 a sostegno dei contras antisandinisti in Honduras, a responsabile politico-militare in Iraq e Afghanistan, a cui è stata affidato il compito di ristrutturare tutti i servizi di sicurezza americani negli anni scorsi e i cui archivi non sono certo nelle sedi ufficiali del Pentagono. Sarebbe ingenuo pensarlo, sapendo che, a richiesta del Congresso o del Senato americano, quel materiale, ancorchè non divulgabile, il Ministero della Difesa dovrebbe trasmetterlo all’autorità inquirente di Washington. Per questo Wikileaks, preziosissimo in gran parte dei casi, può anche diventare portatore sano di una velenosa patologia mistificante, se non si considera come funzionano i servizi. Vediamo di ricostruire almeno un pezzo di quella vicenda. Quando nel marzo 2006, a un anno dall’uccisione a Baghdad dell’agente del Sismi Nicola Calipari mentre riportava a casa Giuliana Sgrena, ben pochi credettero alle rivelazioni del detenuto iracheno Mustafa Mohamed Salman. Tantomeno il pool antiterrorismo della Procura di Roma che si apprestava a chiedere il rinvio a giudizio del fuciliere scelto Mario Lozano per omicidio volontario al posto di blocco 541 della Route Irish, l’autostrada che collega la capitale irachena al suo aeroporto. I pm Ionta, Saviotti e Amelio da alcuni mesi avevano invano inviato a Baghdad una richiesta di rogatoria internazionale nei confronti di Salman, che accusava lo sceicco Hussein del rapimento della giornalista del Manifesto e – unica versione esistente sul mercato che potesse essere compatibile con la tesi difensiva americana – di aver avvisato il Ministero dell’Interno iracheno (e di conseguenza il comando militare americano) che un’autobomba si stava dirigendo all’aeroporto. Assai più credibile, infatti, e più agghiacciante, appariva il racconto – ma chi si ricorda più – di Wayne Madsen, già funzionario della National Security Agency e consulente del progetto di intercettazione Echelon, secondo cui le autorità americane monitoravano Calipari durante l’intero periodo della sua missione in Iraq e che avrebbero saputo esattamente la sua posizione al momento della sparatoria il 4 marzo del 2005. A conforto della testimonianza di Madsen c’erano, ad esempio, le registrazioni delle telefonate di Calipari alla Presidenza del Consiglio a Roma mentre si dirigeva in auto verso l’aeroporto con Giuliana Sgrena e l’altro agente del Sismi Andrea Carpani, una volta liberata la giornalista. Il Pentagono, autore di quelle registrazioni, le aveva fatte circolare per gettare ulteriore discredito sull’operazione salvataggio: basti pensare ai riferimenti al Festival di Sanremo in cui il governo Berlusconi pensava di celebrare il successo dell’impresa… Quello stesso Pentagono che qualche mese prima aveva montato una campagna contro i servizi italiani e la squadra di Nicola Calipari, autori o complici delle liberazioni di tre dei quattro contractors italiani rapiti, poi delle due Simona e anche di due giornalisti francesi; tutti liberi – si diceva – al prezzo di finanziare i gruppi terroristi, in spregio del divieto esplicito imposto agli alleati dall’ambasciatore John Negroponte. Ma aggiungerei anche, per testimonianza personale, che quando visitai con altri parlamentari italiani membri dell’allora Copaco (oggi Copasir) la sede centrale della Cia a Langley nel 2004, nell’illustrare gli strumenti storici e gli attuali sistemi d’intercettazione in particolare nei teatri di guerra come l’Iraq, i funzionari dei servizi americani ci avevano dimostrato come l’apparato consentisse di monitorare al dettaglio ogni spostamento e di registrare ogni comunicazione nei luoghi sensibili. Come la Route Irish, appunto. Ironia della sorte, a quell’incontro era presente anche Nicola Calipari, che quindi - e non solo grazie alla conferma avuta in quell’occasione, è ovvio – nelle sue missioni era ben cosciente di essere “osservato”, al punto che più volte ha dovuto destreggiarsi per evitare il fiato sul collo del comando americano e dei servizi dei paesi alleati (i ritardi nella liberazione di Chesnot e Malbrunot furono dovuti a queste interferenze alleate, per essere espliciti). Come se non bastasse, Calipari – oltre ad aver comunicato il proprio arrivo a Baghdad e ottenuto i lasciapassare dal comando americano, che difficilmente può aver pensato a una gita di piacere del numero due del Sismi incaricato dal governo italiano di fare il possibile per ottenere la liberazione della giornalista rapita – al momento del ritrovamento dell’auto con Giuliana a bordo aveva un elicottero americano che gli volteggiava sopra come più volte hanno dichiarato Andrea Carpani e la stessa Sgrena. Ma veniamo alla “novità” della rivelazione di Scheik Hussein, come risulta dai files ufficiali del Pentagono ottenuti da Wikileaks, risalenti al 1° novembre 2005, nel corso di un interrogatorio dei servizi giordani (e confermato, come abbiamo visto, dal terrorista Mustafa Salam qualche mese più tardi): Hussein, una volta intascati i 500mila dollari del riscatto pagato dal governo italiano – forse l’unica verità del racconto, anche se il pagamento non è avvenuto al momento della liberazione, ma prima e neanche in Iraq – avrebbe informato dell’arrivo all’aeroporto di un’autobomba il Ministero dell’interno iracheno, che a sua volta avrebbe allertato il comando americano, che immediatamente avrebbe messo in guardia la blocking position 541 sulla Route Irish. A parte che non si capisce perché Hussein, dopo aver fatto affari importanti – i più importanti, secondo gli americani – proprio attraverso i sequestri e i riscatti pagati dagli italiani, avrebbe dovuto tendere una trappola proprio a Nicola Calipari. A parte alcuni problemi non secondari di congruenza con gli orari e i tempi di permanenza della pattuglia attivata per garantire il passaggio di Negroponte diretto alla base di Camp Victory. E’ proprio dall’inchiesta ufficiale americana sull’uccisione di Calipari che si è saputo che un guasto al sistema Voip non permise al comando americano di comunicare con la pattuglia sulla Route Irish quando l’ufficiale di collegamento italiano presso l’aeroporto, generale Mario Marioli, informò i colleghi americani che la Toyota Corolla grigio chiaro del Sismi stava rientrando su quell’autostrada e di garantirne il passaggio. Come sarebbe arrivata allora a quella stessa pattuglia l’informazione di Hussein sull’autobomba in arrivo? Mistero. E trascuriamo pure l’errore di Hussein sul tipo di auto, perché la Chevrolet blu – questo è il tipo di auto indicato da Hussein - poteva essere quella con esplosivo a bordo con cui Giuliana Sgrena era stata lasciata dai sequestratori in centro a Baghdad. Ma poi perché il comando militare Usa si sarebbe dovuto fidare della confidenza di quello che, almeno per loro, era uno dei capi di Al Qaeda in Iraq? Altro mistero. Tra i vari dubbi che restano, a mio avviso, in questa vicenda e che sono il frutto della mancata istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta indispensabile a fronte dell’inibizione dell’azione giudiziaria per un fatto così grave, c’è quello delle eventuali complicità americane in Italia contro la linea trattativista che giustamente coinvolgeva, pur con motivazioni non coincidenti, tutta la maggioranza politica di centrodestra e tutta l’opposizione, estrema sinistra compresa. Per avere qualche idea in più di quale fosse il “partito americano” in Italia, quello che ha tentato di depistare Calipari persino dopo la liberazione di Giuliana Sgrena (e che Calipari ha volutamente ignorato!), basterebbe una lettura attenta dei giornali italiani all’indomani dell’omicidio di Nicola, quando tutti si inchinavano di fronte al suo sacrificio. Tutti, tranne chi parlava dei furbetti che così facendo finanziano Al Qaeda; quelli che “gli americani non potevano sapere” perché i nostri li stavano imbrogliando per non farsi beccare; quelli che Mario Marioli è sì il più alto ufficiale dell’esercito italiano in Iraq e che fa ottenere le credenziali a Calipari all’aeroporto di Baghdad, “ma non sa niente” di cosa ci stia a fare il capo del Sismi in quel paese: non ha mai visto neanche la tv o la prima pagina del Corriere della sera per mesi…Sulla pelle di Calipari si è condotta una guerra senza quartiere per mettere le mani su tutto l’apparato di sicurezza del paese, estromettendo – con le buone o con le cattive – ogni possibile concorrente. In un ambiente di sciacalli non dovrebbe meravigliare.
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