Diritto e rovescio, rubrica di giurisprudenza varia

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Percival
view post Posted on 11/7/2008, 12:17




L'amministrazione comunale è responsabile dei danni di qualsiasi genere, subiti dai singoli a seguito della mancata effettuazione della raccolta dei rifiuti solidi urbani.
Ed invero, venendo meno all'obbligo (giuridicamente rilevante) di raccolta dei rifiuti dalle strade o comunque di controllo sul corretto e puntuale svolgimento della stessa da parte di terzi, l'ente realizza una condotta omissiva, sia pure di natura colposa, suscettibile di ledere il diritto del cittadino-contribuente a vivere in un contesto ambientale salubre e decoroso, in cui poter svolgere le proprie attività di vita.
Detta condotta, in presenza di uno specifico obbligo gravante sull'ente di provvedere alla raccolta ed allo smaltimento dei rifiuti e, più in generale, di evitare il crearsi di situazioni pregiudizievoli per la salute ed il benessere morale e fisico dei cittadini, dà luogo a responsabilità ex art. 2043 c.c
Lo ha stabilito, con sentenza del 21 febbraio 2008 (depositata il 10 aprile), il Giudice di Pace di Nola, condannando, sulla scorta di tale principio, il Comune di Saviano al pagamento della somma di euro 1000,00, in favore di un suo cittadino.
Tale somma è stata determinata dal giudice in via equitativa ed è comprensiva sia del danno alla vita di relazione che del danno esistenziale.
 
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Percival
view post Posted on 18/7/2008, 19:28




Anche gli squilli indesiderati sul telefonino sono "molestie telefoniche". Lo ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 29971 del 17 luglio 2008.
Confermata la sentenza del Tribunale di Torino che condannava ad euro 350 di ammenda una trentanovenne che per circa due mesi aveva assillato alcuni suoi vicini con continui squilli e telefonate mute sul cellulare.
Nella motivazione è dato leggere tra l'altro che: "la ripetitività degli episodi e l'esistenza di un accertato movente (liti tra vicini da tutti riconosciute ed ammesse) valgono ad escludere occasionali errori nella composizione del numero. La quantità, gli orari, la concentrazione temporale (tra il 28 aprile e il 14 giugno 2004) e le modalità delle chiamate (interruzione della comunicazione prima o subito dopo la risposta) costituiscono indubbiamente una ingiustificata interferenza nell'altrui sfera privata, capace di turbarne la serenità e riconducibile a quel modo di agire indiscreto e impertinente che integra il concetto di petulanza".


Art. 660 codice penale : Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petualanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516.

Edited by Percival - 18/7/2008, 20:46
 
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Percival
view post Posted on 13/12/2008, 17:12




Il fallito può chiedere nello stesso procedimento fallimentare, ai sensi dell'articolo 96 c.p.c., il risarcimento dei danni cagionati con dolo o colpa grave non soltanto se, in seguito ad opposizione, la sentenza dichiarativa di fallimento sia stata revocata per mancanza dei presupposti di diritto sostanziale, ma anche quando la sentenza stessa sia stata dichiarata nulla per inosservanza di norme processuali.
Deve ritenersi che l'esistenza del danno si configuri in re ipsa in conseguenza della privazione della disponibilità dell'azienda, analogamente a quanto è pacificamente affermato (Cass. n. 827/2006, 10498/2006, 378/2005, 13630/2001, 7692/2001) in relazione alla privazione della disponibilità del bene oggetto di occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione.

Corte di Cassazione, sezione 1 civile, sentenza 29 ottobre 2008, n. 25978


Art. 96 C.p.c.
(Responsabilita' aggravata)
Comma 1

Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza.

Edited by Percival - 13/12/2008, 17:35
 
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Percival
view post Posted on 23/2/2010, 00:56




Ennesima sentenza della Corte di Cassazione (Sezione III, 20 novembre 2009, n. 24529) sulla vexata quaestio della responsabilità ex art. 2051 c.c. (rubricato: Danno da cose in custodia) della P.A. per i danni causati dalla cattiva manutenzione delle strade pubbliche.
Il cuore della questione è rappresentato, appunto, dall'applicabilità o meno della richiamata norma alla fattispecie.
L'art. 2051 ("Ciascuno e responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito") delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva (sine culpa), che esonera l'attore dall'onere di allegare e provare l'elemento soggettivo della colpa; ossia, per tornare al caso che ci occupa, del comportamento negligente della p.a. nel prevenire o rimuovere le cause del danno (che possono essere della più diversa tipologia, dalla buca, al dosso, dalla frana al paracarro divelto ecc.).
A lungo si è ritenuto che tale norma non fosse applicabile al danno cagionato dalla mancata manutenzione dei beni demaniali ed in particolare del demanio stradale.
Si assumeva in proposito che tali beni fossero troppo estesi e difficili da controllare, per cui non poteva ritenersi sussistere in capo agli enti proprietari quel potere-dovere di controllo e vigilanza che costituisce il quid del rapporto di custodia (ad impossibilia nemo tenetur).

Solamente quando, per le ridotte dimensioni, fosse stato possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della P.A., tale da impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti, poteva integrarsi l'ipotesi di responsabilità di cui l'art. 2051 (Cass. 26 settembre 2006, n. 20827; Cass. 12 luglio 2006, n. 15779; Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).

La più recente giurisprudenza di legittimità ha tuttavia posto in non cale il precedente indirizzo, affermando che agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è in linea generale applicabile l'art. 2051 c.c., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione (Cass., 25.7.2008, n. 20427; Cass. 29 marzo 2007, n. 7763; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2308; Cass., 3.4.2009, n. 8157).

Nel solco di tali ultimi arresti si pone anche la recentissima sentenza in commento.

Questa, a dire il vero, si spinge anche oltre, fino a tratteggiare una fattispecie di responsabilità oggettiva "pura", affermando che:

1) l'ente proprietario è responsabile e quindi tenuto al risarcimento, anche nel caso in cui non sia stato possibile rimuovere la causa del pericolo per il breve lasso temporale intercorso dal suo manifestarsi.
2) è sufficiente che la vittima provi l'evento danno ed il nesso di causalità con la cosa di proprietà dell'Ente (la strada, nel caso concreto), essendo irrilevante il comportamento più o meno negligente della P.A. proprietaria.

Facendo applicazione dei suesposti principi i giudici di legittimità hanno cassato la sentenza della Corte di Appello di Trento, che aveva ritenuto non applicabile l'art. 2051 c.c., in relazione al danno subito da un automobilista, che, percorrendo una strada innevata, aveva perduto il controllo della propria vettura in corrispondenza di una curva e nello stesso punto in cui alcuni giorni prima era avvenuto analogo incidente e dove il paracarro, danneggiato in occasione del precedente sinistro, non era stato tempestivamente ripristinato dalla Provincia, proprietaria della medesima strada.
 
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Percival
view post Posted on 11/3/2010, 10:00




Con la pronuncia 22 febbraio 2010, n. 4062 le SS.UU. della Corte di Cassazione sono intervenite a sanare alcuni dubbi interpretativi sorti a partire dal 2004 con l'introduzione nel codice civile del nuovo art. 2495 comma 2 (modificato dall'art. 4, D.Lgs. n. 6 del 2003, in vigore al 1 gennaio 2004 )
Secondo tale norma le società di capitali e cooperative cessano di esistere ipso facto con la cancellazione dal registro delle imprese. Una volta intervenuta tale fatto estintivo i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci e nei confronti dei liquidatori .
In particolare i giudici delle Sezioni Unite hanno stabilito che:
1) la società si estingue, sempre ed ipso facto, con la cancellazione dal registro delle imprese.
Da quel momento la società cessa di esistere, anche nell'ipotesi in cui vi fossero rapporti sostanziali o processuali ancora da definire e viene pertanto meno ogni legittimazione processuale in capo all'estinta società.
2) tali principi sono applicabili anche alle società di persone, a garanzia della parità di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di società
3) l’art. 2495, comma secondo, c.c.è norma innovativa e ultrattiva che, in attuazione della legge di delega, disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004), prevedendo a tale data la loro estinzione.
In altre parole le società di capitali o cooperative, cancellate dal registro delle imprese prima dell'1 gennaio 2004, sono da considerarsi a tutti gli effetti estinte a partire da quella data.
Evidenti le conseguenze dell'applicazione dei nuovi principi anche sui rapporti processuali in corso..
Ed invero con la cancellazione dell'iscrizione al registro delle imprese la società si estingue, con conseguente interruzione del processo che la veda eventualmente coinvolta come attrice o convenuta, il quale andrà riassunto o proseguito nei termini di legge da o nei confronti dei singoli soci.
Mette conto, da ultimo, precisare che prima della novella del 2003-2004, l'orientamento maggiorirtario in giurispridenza era dell'avviso che alla cancellazione dal registro dell'impresa non seguisse automaticamente l'estinzione della società, quando vi fossero ancora crediti insoddisfatti e rapporti non definiti.
In pratica le società anche se cancellate dal registro delle imprese, continuavano a sussistere per il tempo e nella misura necessaria alla definizione dei rapporti patrimoniali o processuali ancora pendenti.
Solo con la liquidazione integrale dei rapporti patrimoniali e processuali attivi e passivi facenti capo alla società, quest'ultima potevas ritenersi effettivamente estinta.
Ne conseguiva che la società, anche dopo la cancellazione, conservava la legittimazione attiva e passiva in relazione ai suddetti rapporti, per cui poteva continuare ad agire o essere convenuta in giudizio.

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Edited by Claudio Bozzacco - 12/3/2010, 09:20
 
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Percival
view post Posted on 27/4/2010, 09:10





Omessa indicazione del codice fiscale e nullità degli atti: ordinanza del Tribunale di Varese

Sul sito giuridico “Altalex” è stata pubblicata una recente ordinanza del Tribunale di Varese (Sez. I Civile, Giudice Dott. Giuseppe Buffone) che affronta la questione della nullità dell’atto introduttivo del giudizio per omessa indicazione del codice fiscale della parte, del suo difensore e delle persone che li rappresentano ed assitono in giudizio (art. 125 e 163 comma 2 c.p.c. così come modificati dal decreto legge 29.12.2009, n. 193).

Il provvedimento esclude la nullità in ossequio alle seguenti considerazioni in diritto:

1) Per “persone che rappresentano o assistono le parti” debbono intendersi non gli avvocati che prestano l’assistenza tecnica (i quali sono comunque obbligati ad indicare il proprio codice fiscale ai sensi del novellato art. 125 c.p.c.), ma i soggetti che, in virtù di specifiche disposizioni normative, agiscono come sostituti processuali o rappresentanti legali (es.i genitori per il minore oppure il rappresentante processuale volontario ex art. 77 cpc).

-2) L’omessa indicazione del codice fiscale non integra nullità dell’atto, trattandosi di una mera “inosservanza di forme”, che non si traduce in nullità se non nelle ipotesi esplicitamente previste dalla legge (art. 156 c.p.c.)

3) Tale espressa commminatoria non può ritenersi integrata dal disposto dell’art. 164 co. 1 c.p.c. (“la citazione nulla se omesso o assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nei numeri 1) e 2) dell’art. 163 c.p.c.”), atteso che “sulla scorta di una giurisprudenza ben consolidata, la nullità della citazione, ai sensi dell’art. 163 n. 2, può essere pronunciata soltanto se e quando l’omissione determini una incertezza assoluta in ordine alla individuazione della parte, altrimenti l’omissione costituisce una violazione meramente formale che si traduce in una irregolarità non invalidante l’atto giudiziale”.

4) La funzione del codice fiscale è quella di identificare il cittadino contribuente e si esaurisce nei rapporti tra questi e l’amministrazione finanziaria, “cosicché la violazione di una norma che disciplina un rapporto estraneo al processo non può riverberare i suoi effetti sul procedimento”.

Scontata la conclusione, secondo la quale: “in caso di omessa indicazione del codice fiscale, delle parti, di chi li rappresenta o assiste oppure dei difensori, il giudice non deve pronunciare la nullità dell’atto ma può, tutt’al più, sollecitare una condotta che vada a rimuovere l’irregolarità”.

L’illustrata pronuncia, per quanto apprezzabile nel suo pragmatismo, non fuga definitivamente tutti i dubbi ingenerati da questo ennesiomo “capolavoro” del legislatore (già intervenire sui codici di rito con lo strumento del decreto legge fa, di per sé, venire i brividi).

In senso diverso ha opinato il Giudice di Pace di Ottaviano, Avv. Anna Esposito, che, interpretando leteralmente il combinato disposto degli art. 163, 3° comma e 164 1° comma c.p.c., ha dichiarato la nullità dell’atto di citazione per omessa indicazione del codice fiscale dei convenuti (che, è da precisare, non si erano costituiti).

Si attendono ora ulteriori pronunce dei giudici di merito.
 
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Percival
view post Posted on 12/5/2010, 15:20




Illegittima l’ipoteca iscritta da Equitalia se il debito del contribuente è inferiore agli 8.000 euro

Ha avuto vasta eco in rete la sentenza (n. 4077 del 22 febbraio 2010) con la quale la Corte di Cassazione a sezioni unite, ha dichiarato nulla un’iscrizione di ipoteca effettuata da Equitalia Polis per un credito di imposte dirette di valore inferiore ad € 8.000,00.
La decisione scioglie in maniera (si auspica) definitiva la problematica del rapporto tra i due strumenti che la legge (d.p.r. 603/1972) conferisce al concessionario (nella specie Equitalia) per la riscossione delle imposte e dei tributi iscritti a ruolo per mancato pagamento nei termini: l’espropriazione immobiliare e l’iscrizione di ipoteca.
Ed infatti, l’art. 76 del cennato d.p.r. consente al concessionario di procedere all’espropriazione immobiliare, ma solo se l’importo complessivo del credito per cui si procede supera
complessivamente gli € 8.000,00 (ridotti a € 5.000,00 dall’art. 32, comma 7, lettera a) del D.L. 29 novembre 2008, n.185, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2).
Il successivo primo comma dell’articolo 77 prevede, invece, la facoltà per il concessionario di iscrivere ipoteca (cd. esattoriale) sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio dell’importo complessivo del credito per cui si procede.
Quest’ultima norma, a differenza dell’art. 76, non indica alcun limite di valore del credito.
Orbene parte della giurisprudenza di merito (Tribunale di Nola e, anche se non in maniera univoca, Tribunale di Napoli) muovendo da tale dato testuale e considerando autonomi, se pur collegati sotto l’aspetto funzionale, i due istituti, ha affermato l’inapplicabilità all’iscrizione di ipoteca del limite minimo di € 8.000,00 previsto per l’espropriazione immobiliare.
L’iscrizione di ipoteca esattoriale, si argomenta, oltre ad avere funzione preparatoria dell’espropriazione immobiliare, svolge anche un proprio autonomo ruolo di garanzia e soprattutto di “pressione” sul debitore (il quale è indotto al pagamento per ottenere lo svincolo del proprio bene) che favorisce il recupero del credito senza il ricorso al rimedio estremo dell’espropriazione forzata.
Ne discende l’autonomia dei due istituti e quindi delle norme che li disciplinano.
Alla stregua di tale orientamento, quindi, per crediti relativi ad imposte dirette di valore complessivo inferiore ad € 8.000,00, il concessionario, non può procedere all’espropriazione immobiliare (art. 76 d.p.r. 603/1972), ma può iscrivere ipoteca sui beni immobili del contribuente (art. 77 d.p.r. 603/1972).
Altro indirizzo, suffragato dalla sentenza in commento, ritiene sussistere uno stretto ed inscindibile nesso funzionale tra l’iscrizione dell’ipoteca e la successiva espropriazione immobiliare, nel senso che la prima sarebbe esclusivamente strumentale alla seconda e, come atto prodromico, sarebbe assoggettata alle medesime regole, ivi incluso il limite degli € 8.000,00 (oggi € 5.000,00).

TRIBUTI – RISCOSSIONE – IPOTECA – DEBITO DEL CONTRIBUENTE SUPERIORE AGLI OTTOMILA EURO – NECESSITÀ
In tema di riscossione delle imposte, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui l’ipoteca prevista dall’art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, rappresentando un atto preordinato e strumentale all’espropriazione immobiliare, soggiace agli stessi limiti per quest’ultima stabiliti dall’art. 76 del medesimo d.P.R., e non può, quindi, essere iscritta se il debito del contribuente non supera gli ottomila euro.

Sentenza n. 4077 del 22 febbraio 2010

(Sezioni Unite Civili, Presidente V. Carbone e Relatore F. Tirelli)

In senso contrario:
Tribunale di Nola sez. I, sentenza n. 190 del 25 febbraio 2008; Tribunale di Napoli, sez. VIII, sentenza n. 4595/2007; Tribunale di Napoli, sez. V, sentenza n. 8618/2006, Tribunale di Napoli, sez. VIII, sentenza numero 30021/2005).

Conforme:Tribunale di Napoli, V Sez. civile, 29 marzo 2007, G.M.: dott. Giorgio Sensale.
 
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view post Posted on 22/4/2011, 09:17
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Edited by Claudio Bozzacco - 29/4/2011, 11:33
 
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view post Posted on 3/4/2019, 07:55
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