Quell’Italia che ce la fa. Ferruccio de Bortoli.

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view post Posted on 10/4/2009, 08:32
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Quell’Italia che ce la fa

di Ferruccio de Bortoli

Nei momenti di dolore collettivo si scoprono immagini indelebili di solidarietà, efficienza e unità d’intenti del nostro Paese. Due su tutte: la dignità e la compostezza di chi ha perduto sotto le macerie un familiare, la generosità di tanti volontari anonimi. In realtà, non dovremmo assolutamente sorprenderci, come facciamo in questi giorni. Il Paese non si trasforma, non si scopre diverso. Mostra solo alcune delle sue tante qualità. Lo spirito italiano, quello vero, è ben descritto dagli inviati del Corriere. E ci si accorge che l’informazione è utile, necessaria. Non dovremmo stupircene. Insieme alle notizie circolano i sentimenti, le emozioni. Ci si sente tutti parte di una comunità. Ma i media non svolgerebbero fino in fondo il proprio compito se non denunciassero le tante incurie, le leggi inapplicate, le costruzioni colpevolmente fuori norma. E se non continuassero, anche quando l’emergenza sarà finita, a diffondere quella cultura della prevenzione e della manutenzione che misura il nostro livello di civiltà.

Basta l’esempio di questi giorni drammatici per descrivere la funzione pubblica di un buon giornale. Su carta e online. Onesto, serio e costruttivo. Com’è il Corriere della Sera, un’autentica istituzione di garanzia del Paese, che da oggi sarà firmato da chi scrive. L’impegno con i lettori, in estrema sintesi, è proprio questo. Il nostro è un giornale aperto. Nel quale le idee si confrontano e si rispettano. Ma noi siamo dei moderati, sottolineo moderati, orgogliosi della nostra tradizione. E della nostra indipendenza. Un giornale aperto è il luogo dell’incontro proficuo tra laici e cattolici. Il luogo della tolleranza e della ragione. Dove si tenta di costruire, piuttosto che distruggere. Che sta dalla parte del Paese. Non contro. E ambisce a rappresentare quell’Italia che ce la fa, come quella di questi giorni di passione in Abruzzo. Consapevole dei suoi mezzi. Che produce, investe, studia; si rimbocca le maniche ed è orgogliosa di quello che crea. E va non solo informata correttamente ma anche rappresentata. Difesa. Un giornale moderno è anche uno specchio dell’identità di chi lo legge.

Il Corriere giudica sui fatti (e qualche volta può sbagliarsi), ma non sta pregiudizialmente con nessuno. Se fosse stato sempre al servizio di qualcuno (anche dei suoi azionisti) non avrebbe mai potuto svolgere il ruolo storico che gli è proprio. Non avrebbe mai potuto anticipare gran parte delle scelte di civiltà e progresso del Paese, le aperture all’Europa, al libero mercato. Paolo Mieli, a cui succedo per la seconda volta, questi valori li ha conservati in una fase difficile nel rapporto fra informazione e potere. Gli va reso merito. Mieli continuerà a scrivere sul suo giornale.

Qui mi fermo. E cambio registro. Vorrei trattare in breve due temi. Primo: perché un’informazione libera, indipendente e responsabile fa bene alla democrazia? Non è una domanda retorica.

Senza un'opinione pubblica consapevole e avvertita un Paese non è soltanto meno libero, ma è più ingiusto e cresce di meno. Il cittadino ha pochi strumenti affidabili per decidere, non solo per chi votare, ma anche nella vita di tutti i giorni. La sua classe dirigente fatica a individuare le priorità, lo stesso governo (come avviene nelle aziende in cui tutti dicono di sì al capo) seleziona più difficilmente le buone misure distinguendole da quelle che non lo sono. Il consumatore è meno protetto, il risparmiatore più insidiato. Lo spazio pubblico è dominato dall'inutile e dall'effimero.

Si discute molto, e a ragione, sugli eccessi dell'informazione. Che ci sono, e gravi. Di cui anche noi portiamo le nostre colpe. Si discute poco sui costi della non informazione. Dove c'è opacità il merito non è riconosciuto; quando c'è poca trasparenza le aziende e i professionisti migliori sono penalizzati, i lavoratori onesti posti ai margini, i talenti esclusi. I diritti calpestati. La qualità della cittadinanza modesta.

Colpisce che spesso la classe dirigente italiana, non solo quella politica, consideri l'informazione un male necessario. E sottostimi il ruolo di una stampa autorevole e indipendente.
Tutti l'apprezzano e la invocano quando i giornalisti si occupano degli altri, degli avversari e dei concorrenti. Altrimenti la detestano e la sospettano.

Molti confondono l'informazione con la comunicazione di parte o la considerano la prosecuzione della pubblicità con altri mezzi. Una classe dirigente che non riconosce il ruolo di garanzia dell'informazione dimostra una scarsa maturità e una discreta miopia. La leadership nei processi globali, in particolare in questi momenti di profonda inquietudine e disorientamento, è fatta di informazioni corrette, tempestive e credibili. Il dibattito vero fa emergere le politiche migliori, quello falso o reticente solo quelle che appaiono in superficie le più percorribili e all'apparenza le meno costose. Insomma, con i cantori a pagamento e gli spin doctors improvvisati non si va da nessuna parte.

Il secondo tema che vorrei trattare riguarda l'utilità dei giornali. Vivono una crisi profonda, questo è vero. Ma non sono mai stati così letti. Sulla carta e online. Ci sarà una ragione se un navigatore che vuole un'informazione credibile accede più facilmente al sito di una testata storica. La Rete è una grande piazza democratica ma il confine fra vero e falso, effimero e sostanziale, lecito e illecito è assai sottile. E poi c'è un'altra ragione. Guardatevi intorno: quali sono i simboli che vi ricordano tradizione, appartenenza, storia della vostra comunità? Sono pochi, pochissimi.

Un'alluvione di marchi e format globali. In strada, in tv e nella Rete. Persino la vostra squadra del cuore parla una lingua diversa. A volte capita che solo in edicola e in libreria si abbia la certezza di trovarsi nel proprio Paese. Con il suo giornale un lettore si sente sempre a casa. A suo agio. Con uno strumento (anche di lavoro) affidabile per interpretare realtà complesse.

Sentirsi parte attiva di una comunità ed essere contemporaneamente cittadino del mondo. Ecco perché un buon giornale cambierà, si trasformerà, si integrerà di più con Internet, ma resterà sempre un pezzo insostituibile della nostra identità nazionale, l'anima e la ragione per la quale stiamo insieme. Il Corriere racconta e dà voce all'Italia che ce la fa. L'Italia migliore, quella che abbiamo visto all'opera in questi giorni di lutto e solidarietà nazionale. E se le nascondesse difetti e limiti finirebbe per amarla di meno. Il che non è nemmeno pensabile.

10 aprile 2009
corriere della sera

 
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view post Posted on 12/2/2010, 11:10
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Noi italiani senza memoria

VIAGGIO ATTRAVERSO IL PAESE (150 ANNI DOPO)

Noi italiani senza memoria

Era questo il Paese che sognavano Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni Cairoli e tutti gli altri ragazzi morti perché noi italiani stessimo insieme? E’ questa l’«Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione» che immaginava Mazzini nella lettera alla madre Adelaide («Voi che li avete veduti sparire a uno a uno…») dove si diceva certo che la memoria di quei fratelli sarebbe rimasta in eterno «simbolo a tutti del dolore che redime e santifica»? Mah… Centocinquanta anni dopo, il nostro è uno strano Paese che non conosciamo bene. Un Paese che, lasciandosi alle spalle secoli di povertà, violenza e degrado che ancora a metà dell’Ottocento spinsero Charles Dickens a scrivere pagine cupe in Visioni d’Italia, ha vissuto tra mille contraddizioni decenni di recupero e sviluppo fino al formidabile boom che ci portò ai primissimi posti nel mondo. Un Paese dai paesaggi bellissimi e insieme sfregiato da orrori urbanistici. Traboccante di intelligenze, ma il più delle volte sprecate. Ricco come nessun altro di opere e città d’arte ma incapace di sfruttare questo immenso patrimonio. Un Paese nel quale la burocrazia soffoca le imprese, dove le tasse sono fra le più alte del pianeta, dove la classe dirigente, anziana e aggrappata al potere, ostacola il ricambio. E dove il razzismo strisciante avvilisce la nostra storia di emigranti. Un Paese pieno di energia ma anche impaurito, capace di straordinari slanci di solidarietà come dopo il terremoto a l’Aquila ma anche esposto alle tentazioni di barricarsi, dal Nord al Sud, in egoismi sovente gretti e suicidi che rischiano di portare alla disgregazione.

Un Paese spaesato. Che fa sempre più fatica a riconoscere le ragioni dello stare insieme. Che giorno dopo giorno, liberandosi di certe forzature retoriche sabaude e poi fasciste che avevano impomatato una certa idea di patria («Ed essa faremo co’petti, co’carmi / superba nell’arti, temuta nell’armi / regina nell’opre del divo pensier ») sembra aver buttato via l’unica epopea che aveva. Quella del Risorgimento. Il grande romanzo culturale, militare e sociale (pieno di colpi di scena e avventure umane e tradimenti e slanci ideali e lutti e pathos ed errori e leggendari esempi di dedizione) che altri avrebbero sbandierato con l’orgoglio di chi mostra la storia di terre e genti divise da secoli che in pochi anni sanno diventare una nazione. Dove va un Paese che non ama la propria storia?

Un Paese timoroso del suo futuro e infastidito quasi dal suo passato, come dimostrano le incertezze e le insofferenze nella programmazione del Centocinquantenario? E’ quello che cercheremo di scoprire con un lungo viaggio attraverso i luoghi della nostra memoria collettiva. Scopriremo che i campi di battaglia sono diventati aree industriali forse oggi un po’ ammaccate ma floride, che dove attraccarono i Mille ci sono ombrelloni e villette abusive, che a due passi da dove Garibaldi disse «Obbedisco» comanda la camorra o si batte coraggioso un prete di frontiera. E magari scopriremo anche che non solo l’Italia è un Paese vivo pronto a ricominciare ma che nella storia risorgimentale ci sono ancora molte cose da raccontare, che forse vengono ignorate dai libri ma sono nel cuore e nella pancia delle persone e rappresentano la ricchezza delle comunità locali. Una ricchezza da preservare e tramandare.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
 
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view post Posted on 12/6/2010, 11:52
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PRIVILEGI, FAVORI, CORRUZIONE

L’opacità del potere

Negli ultimi tempi è intervenuto un cambiamento importante sia nelle «auto blu» cosiddette «di servizio » — che poi peraltro sono quasi sempre nere — sia, più in generale, nelle auto adoperate dagli italiani che contano (dalle maestose berline di rappresentanza ai Suv c a f o n i s s i m i d a weekend): sempre più spesso queste auto hanno i vetri dei finestrini oscurati. La metafora è inevitabile: il potere nostrano ama l’opacità, accompagnata, anche in questo caso, dal privilegio: poter vedere senza essere visti. Un piccolo e normale privilegio stavolta, alla portata di tutti, ma che comunque allude alla dimensione dell’opacità, consustanziale a quella del potere italiano: la sua mancanza di pubblicità è, infatti, la garanzia maggiore del mantenimento del privilegio. Non è il desiderio di arricchire, non è il basso desiderio di impadronirsi di beni e ricchezze, l’anima vera della corruzione italiana, il suo principale movente. Psicologicamente credo che sia qualcosa di diverso: è il privilegio, l’ambizione innanzitutto di distinguersi, di appartenere al gruppo di coloro per cui non valgono le regole che valgono per tutti. A cominciare da quella regola suprema che è la legge.

Si ruba, si viola il codice penale, convinti che tanto a noi non toccheranno le conseguenze che invece toccherebbero a un comune mortale. Convinti che in un certo senso ciò che si sta commettendo non è neppure più un reato dal momento che siamo noi a commetterlo, e dal momento che noi facciamo parte di un gruppo a parte, il gruppo dei privilegiati, appunto. Dietro l’ormai leggendaria impudenza dell’ex ministro Scajola—leggendaria innanzitutto per la sua goffaggine («devo appurare chi è stato a pagare per l’acquisto della mia casa»)—cosa c’è infatti se non un’idea di privilegio talmente introiettata da essersi mutata in una presunzione d’impunità, pronta a prendere addirittura la forma della distrazione? Antica società di ceti, dominata da una forte rigidità gerarchica, la società italiana si è abituata a considerare il privilegio l’unico contenuto effettivo del rango. Essere qualcuno significa, in Italia, innanzitutto stare al di sopra della massa. E nella Penisola tutti — giornalisti, tassisti, parlamentari, membri di tutti gli ordini professionali, magistrati—tutti vogliono essere al di sopra degli altri, titolari di qualche privilegio: essere esentati da qualche obbligo; avere delle riduzioni; degli sconti o come minimo dei biglietti omaggio; rientrare in un «numero chiuso»; fruire di un’ope legis; godere di un trattamento speciale; magari di una cassa mutua riservata. Ma il massimo del privilegio, la consacrazione del vero privilegiato, sta altrove.

Sta nella possibilità di chiedere «favori», e naturalmente di ottenerli. Ed egualmente lì sta la dimostrazione indiscutibile del rango. Infatti si possono chiedere favori solo se si «conosce » (fornitori, nomi importanti, persone in posti chiave), e naturalmente si «conosce» solo se a propria volta si è «conosciuti », cioè se si è qualcuno. Non si capisce nulla delle ragioni e della profondità inaudita del narcisismo dilagante in Italia, specie tra i giovani, non si capisce la conseguente, universale, spasmodica voglia di apparizioni e di carriere in tv, se non si tiene a mente il privilegio di «conoscenze»—e dunque di favori, di accessi di ogni tipo—che da noi si attribuisce all’essere «conosciuti». Se «si va» in televisione ci si fa «conoscere», e per chi è «conosciuto» nulla è impossibile. Sulla scena italiana, intorno alla grande arena del privilegio, opacità e riservatezza da un lato, e narcisismo ed esibizionismo dall’altro, s’intrecciano contraddittoriamente: nel primo caso per difenderla, nel secondo per entrarvi. Da tempo però la scena è furiosamente animata da un altro protagonista: l’intercettazione telefonica. Questa, e la sua divulgazione,(così come la divulgazione degli stipendi e delle case) sono diventate la grande speranza, l’estrema risorsa della massa dei non privilegiati. Lo sa bene chi ha il potere di usarne— magistratura e stampa—e che proprio per questo ne fa l’uso così ampio che sappiamo.

Grazie all’intercettazione telefonica si rompe finalmente l’opacità del grande privilegio sociale, quello dei politici e dei ricchi innanzitutto, e l’aura di riservatezza di cui esso si nutre. Finalmente i discorsi dei potenti sono squadernati nella loro volgare quotidianità, nei loro desiderata, perlopiù inconfessabili, nei loro intrighi, ed esposti una buona volta al giudizio dei più. Nella sua versione italiana l’intercettazione telefonica diventa così la vendetta della plebe sull’oligarchia, la rivalsa della demagogia sulla democrazia. È lo sputtanamento, come è stato esattissimamente detto: lo sputtanamento demagogico, appunto, opposto alla pubblicità democratica. Una forma di giustizia violenta ed elementare, senza appello e senza garanzia alcuna. Una specie di linciaggio incruento. Ciò che è terribile è che la maggior parte di coloro che vivono in questo Paese pensi che sia questa, oggi, la sola forma di giustizia possibile. Ed ancora più terribile è che, probabilmente, hanno pure ragione.

di Ernesto Galli Della Loggia
12 giugno 2010

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