OSSERVAZIONI SULLA SENTENZA SPACCAROTELLA.
Il 10 settembre sono state depositate le motivazioni della sentenza con la quale la Corte d’assise di Arezzo ha condannato condannato a 6 anni di reclusione per omicidio colposo Luigi Spaccarotella, l'agente di polizia stradale dalla cui pistola parti’ il colpo che uccise il tifoso laziale Gabriele Sandri, l’11 novembre 2007 nell’area di servizio di Badia al Pino sull’A1.
La presenza su questo forum di una discussione dedicata alla triste vicenda rende d'obbligo un commento.
Si tratta ovviamente -ed è doveroso precisarlo -di un personale, modesto commento giuridico, basato sul solo contenuto delle motivazioni depositate, per come e nella misura in cui esso è trapelato dagli organi di stampa.
La prima impressione è quella di una sentenza male argomentata e contraddittoria, che giunge a conclusioni opposte a quelle che le sue stesse premesse di fatto consentirebbero logicamente di infierire.
Il problema va inquadrato anzitutto nell'ambito generale della teoria del reato.
In sintesi, nella fattispecie concreta di reato (ad es. omicidio, furto, rapina) si distinguono tradizionalmente tre elementi (cd. teoria tripartita del reato): il fatto, l'antigiuridicità e la colpa.
Il fatto costituisce l'elemento oggettivo del reato. Esso ricomprende: la condotta (nel nostro caso esplodere un colpo di arma da fuoco), l'evento, ossia la conseguenza della condotta (nel caso specifico la morte di Sandri) ed il nesso di causalità (tra la condotta e l'evento).
Il secondo elemento è quello della antigiuridicità, che si sostanzia nella mancanza di cause di giustificazione (ossia nell'assenza nel caso concreto di quelle fattispecie normative, denominate “scriminanti” -come la legittima difesa, il consenso dell'avente diritto, l'uso legittimo delle armi lo stato di necessità ecc.- in presenza delle quali un fatto che di per sé costituisce reato cessa di essere tale).
Vi è poi il terzo elemento, quello che in questa sede precipuamente interessa: l'elemento della colpevolezza o anche elemento psicologico o soggettivo.
Il reato è difatti un'azione umana e quindi, come tutte le vicende umane, si agita su di uno sfondo motivazionale più o meno determinato.
L'elemento “colpevolezza” è quello che permette di legare dal punto di vista psicologico un fatto costituente reato alla volontà di chi lo ha commesso.
Se manca questo legame non può difatti esservi responsabilità penale.
Il rapporto tra fatto-reato e volontà può assumere diversi gradi di intensità.
Ad un primo livello è da escludere qualsiasi rapporto tra fatto e volontarietà dello stesso, come nel caso degli atti compiuti nel sonno o nel delirio di una malattia o per forza maggiore.
Quando, invece, può affermarsi un rapporto tra fatto e volontà, tale rapporto può assumere diversi gradi di intensità, che sono, per semplificare, quelli del dolo, della preterintenzione e della colpa.
A ciascuno di queste tipologie di nesso psichico tra il fatto ed il suo materiale autore corrisponde un diverso grado di responsabilità e, di conseguenza, una maggiore o minor pena.
In genere si ha dolo quando l'autore del fatto costituente reato lo ha previsto e voluto in tutti i suoi elementi oggettivi (condotta, evento e nesso di causalità): es Tizio volontariamente prende una pistola e, sempre volontariamente esplode uno o più colpi contro Caio, prevedendone e volendone la morte o il ferimento.
Nella colpa al contrario la condotta esecutiva del reato, pur essendo volontaria, non è intenzionalmente diretta a determinare uno specifico evento dannoso (es. la morte), il quale però ugualmente si verifica in dipendenza della comportamento che l'autore ha posto in atto, violando regole di normale prudenza (cd. colpa generica: per imprudenza, imperizia, negligenza) ovvero regole cautelari prescritte da regolamenti, leggi, ordini e discpline (cd. colpa specifica).
Ad es. chi, percorrendo a velocità non prudenziale una strada urbana, investe un pedone risponderà di omicidio colposo, poiché la morte del pedone non è stata intenzionalmente perseguita, ma si è verifìcata a seguito della violazione di specifiche norme del codice della strada da parte dell'investitoe (colpa specifica).
Anche nell'ambito delle singole categorie di dolo e colpa possono distinguersi gradazioni diverse d'intensità.
La forma più grave di dolo è quella del dolo diretto od intenzionale, che si ha quando l'evento dannoso costituisce anche il fine ossia l'obiettivo finale della condotta (es. Tizio odia Caio e vuole ucciderlo, per cui armato di pistola si reca da costui e lo sopprime).
Ma il dolo non può ridursi a questo.
Poniamo, ad esempio, che il Tizio di cui sopra, individuato il suo nemico Caio, lo rinvenga mentre costui si intrattiene nella pubblica piazza con Mevio e Sempronio. Orbene se Tizio colpisce per errore, insieme o in luogo di Caio, Mevio e/o Sempronio, risponderà anche della morte di questi ultimi a titolo di dolo, anche se lo scopo della sua azione era quello di uccidere Tizio e solamente Tizio.
In questa ipotesi si parla di “dolo indiretto”.
Una forma di dolo indiretto (non esplicitamente prevista dalla legge, ma di creazione dottrinale e giurisprudenziale) è il dolo cd. eventuale.
Si parla di dolo eventuale quando il soggetto attivo (autore del fatto) si è determinato a porre in essere una determinata condotta, rappresentandosene anticipatamente le possibili conseguenze e quindi accettando volontariamente il rischio del loro verificarsi.
(es.: il camorrista Tizio, a scopo di minaccia o estorsione, colloca in prossimità dell'ingresso di un noto esercizio commerciale un ordigno, che esplodendo uccide o ferisce un passante.
In questo caso Tizio, in teoria, risponderà a titolo di dolo “eventuale” e non a titolo meramente colposo, anche della morte o del ferimento del passante, evento da lui non voluto ma certamente previsto come possibile.
Ovviamente nel caso del dolo eventuale sarà applicata una pena minore che nel caso di dolo intenzionale, in relazione alla minore intensità della volontà criminosa.
Idealmente contigua al dolo eventuale è la cd. colpa cosciente o colpa con previsione, la forma più intensa assunta della colpa.
In questo caso il soggetto attivo pone in essere la condotta esecutiva del reato, rappresentandosi e prevedendone anticipatamente le conseguenze dannose, ma ritenendo di poterle evitare, in virtù di sue particolari capacità, abilità od attitudini ovvero in forza di particolari circostanze di fatto di cui egli è a conoscenza.
Sia nella colpa specifica, dunque, che nel dolo eventuale vi è preventiva valutazione del rischio connesso all'azione ed alle sue logicamente possibili conseguenze effettuali. Tuttavia, mentre nel caso del dolo eventuale il soggetto prevede come possibile l'evento dannoso e nonostante ciò decide comunque di porre in essere la condotta, accettando il rischio ad essa connesso, nella colpa specifica il soggetto attivo pure prevede la possibilità dell'evento dannoso, ma è convinto di essere in grado di evitarlo essendo ad es. un abile guidatore, un tiratore provetto, un acrobata ecc.
Non vi è, insomma, accettazione del rischio.
Il caso esemplificativo di scuola è quello del lanciatore di coltelli che colpisce per errore la sua assistente. Questi può ragionevolmente rappresentarsi la possibilità che dal lancio di un arma da taglio contro una persona (condotta) possa derivare il ferimento o la morte di essa (evento dannoso), nondimeno, essendo egli un abile ed esperto lanciatore di coltelli ed avendo eseguito quell'esercizio centinaia di volte, è altrettanto ragionevolmente convinto di potere evitare di colpire l'assistente.
Altra ipotesi di scuola è quella del pilota di rally che durante una gara percorre ad alta velocità una strada accidentata e con tornanti, pur sapendo che ai margini della stessa vi sono degli spettatori che potrebbero essere investiti.
Alla luce di quanto finora detto è possibile procedere all'analisi della sentenza “Spaccarotella”, basandosi sugli elementi e sulle affermazioni nella stessa contenute, le quali, si presume, si fondino a loro volta sui risultati acquisiti nel corso del'istruttoria dibattimentale, i cui atti ovviamente non è stato possibile consultare.
Iniziamo dall'elemento oggettivo, che ci sta tutto.
Un agente spara e colpisce una persona (condotta) cagionandone la morte (evento).
Non vi sono scriminati (legittima difesa ecc.), per cui si tratta, sicuramente, di fatto antigiuridico.
Ciò non basta, però, al giudice per poter irrogare una condanna.
Occorre anche verificare quale rapporto o nesso psicologico (dolo intenzionale, dolo indiretto, colpa cosciente, colpa incosciente ecc.) leghi l'autore del fatto al fatto stesso.
Solo così sarà possibile determinare l'intensità della volontà criminosa e quindi la pericolosità del soggetto ed applicare la quantità di pena più idonea.
Nel caso di specie, dunque, la Corte ha, giustamente, escluso il dolo intenzionale, che del resto nessuna delle parti aveva mai invocato.
E difatti i giudici dopo aver affermato che “l’esplosione del colpo, e quindi lo sparo, e’ stata sicuramente volontaria’’ (ossia che il colpo non è partito accidentalmente, a seguito di cadiuta o inciampo ecc., nel qual caso avremmo avuto un caso di colpa semplice o incosciente o addirittura di caso fortuito), esclude che l'intenzione di Luigi Spaccarotella fosse quella di uccidere Gabriele Sandri (ci mancherebbe), essendo piuttosto il suo scopo quello di ‘’fermare il percorso dell’auto’’.
Osservazione pressoché inutile, poiché il P.M. aveva chiesto che venosse dichiarata la penale responsabilità dello Spaccarotella non a titolo di dolo intenzionale bensì per l'ipotesi (meno grave, ma sempre dolosa) del dolo eventuale.
I giudici della Corte di Assise di Arezzo hanno, invece, ritenuto non sufficientemente provata tale forma di responsabilità.
Questa conclusione, tuttavia, appare fondata su premesse ed argomentazioni francamente deboli e contradditorie e che, anzi, rettamente interpretate, militerebbero in senso contrario.
Innanzitutto l'elencazione dei fatti accertati dalla Corte.
Abbiamo un auto apparentemente in fuga o che comunque cerca di sottrarsi a controlli di polizia. Sul lato opposto dell'autostrada un poliziotto, a diversi metri di distanza, estrae la propria arma. Prima la mostra, poi esplode un colpo in aria, ma inutilmente. La macchina non si ferma.
Il poliziotto a questo punto, assunta la posizione di tiro, punta l'arma ad altezza d'uomo e mirando alla macchina esplode un ulteriore colpo contro l'auto in movimento, causando, anche a seguito (così pare) di una deviazione, la morte del Sandri.
Il colpo – secondo i giudici - "“era direzionato, non diretto, si badi bene, ma direzionato, verso una parte della vettura collocabile all'incirca non oltre la metà della sua altezza".
E' dunque accertato che il colpo venne esploso volontariamente, in posizone di tiro e prendendo di mira direttamente la macchina, in un punto collocabile all'incirca non oltre la metà della sua altezza, ossia in una posizione (altezza d'uomo) tale da rendere molto più che probabile l'evenienza di poter colpire qualcuno degli occupanti o delle persone eventualmente vicine all'auto.
E' di poco pregio l'osservazione della Corte per cui “l’oggettiva rilevanza della distanza del punto di osservazione’’ dei testimoni che hanno detto in aula di aver visto Luigi Spaccarotella ‘’con un braccio o le braccia tese in posizione di tiro’’ renderebbe ‘’manifestamente evidente l’impossibilita’ di una concreta determinazione della precisa angolazione del braccio (o delle braccia) rispetto all’asse del corpo, e quindi della possibilita’ di desumere da cio' se l’obiettivo preso di mira fossero gli occupanti del veicolo o la parte inferiore di questo’’.
Ed invero a quella distanza e con un obiettivo in movimento, già il mero fatto di aver sparato ad altezza d'uomo contro la vettura, costituisce circostanza senz'altro idonea, di per sé, a creare l'altamente probabile e facilmente percepibile pericolo di colpire una o più persone, a prescindere dall'intenzione perseguita o dal punto della vettura che lo Spaccarotella, in maniera più o meno velleitaria, aveva in animo di colpire. Proprio su tali basi a pubblica accusa e la parte civile avevano avanzato l'ipotesi del dolo eventuale, sostenendo che lo Spaccarotella, al momento di prendere la mira e sparare, poteva senz'altro prevedere come possibile ed, anzi, altamente probabile il rischio di colpire gli occupanti e che, ciononostante, abbia comunque sparato, in tal modo accettando il rischio del verificarsi della morte o del ferimento di qualcuno degli occupanti ed assumendosene la cosciente responsabilità.
I giudici aretini, al contrario, hanno ritenuto – da quanto è dato capire - la sussistenza della fattispecie meno grave della colpa, non si comprende bene se semplice o con previsione dell'evento (colpa cosciente).
Ora, anche astraendo dalla correttezza di tale qualificazione, condivisibile o meno, non può non evidenziarsi l'assoluta inconsistenza delle argomentazioni utilizzate.
Ed infatti, dopo aver affermato, come visto, che “il colpo era direzionato (...) verso una parte della vettura collocabile all'incirca non oltre la metà della sua altezza" (contrariamente a quanto sostenuto dall'imputato che ai colleghi, aveva "riferito, poi ribadendolo reiteratamente, di avere esploso anche il secondo colpo in aria, circostanza questa decisamente smentita dall’istruttoria dibattimentale’’) ha tuttavia ritenuto che tale circostanza fosse maggiormente compatibile con l’ipotesi che Spaccarotella "mai e poi mai potesse aver seriamente pensato, accettando anche solo vagamente tale prospettiva, che il proiettile finisse invece col colpire e addirittura uccidere taluno degli occupanti’’.
E' arduo sostenere che chi si accinge a sparare da notevole distanza contro un' auto in movimento, se è persona adulta e anche minimamente consapevole delle proprie azioni, non pensi seriamente (ed anzi, neanche “vagamente”) al rischio di poter sbagliare mira e colpire gli occupanti.Senza dire, poi, che siffatta affermazione porterebbe ad escludere la stessa ipotesi della colpa cosciente, configurando un caso addirittura di colpa semplice, senza previsione dell'evento.
Gli stessi giudici sembrano esserne consapevoli nel momento in cui si premurano di “dimostrare” che l'imputato, pur prevedendo il rischio di colpire gli occupanti, avrebbe ritenuto di poter evitare ciò: dimostrazione assolutamente ultronea, inutile ed illogica, quando si è già asserito che l'agente nemmeno si era vagamente rappresentata la possibilità di colpire qualcuno.
Vediamo come.
“Spaccarotella non era un provetto tiratore - si legge ancora nelle motivazioni - ma dall'ultima esercitazione, di soli pochi giorni prima, aveva ottenuto ottimi risultati. Nulla di strano che, euforizzato da ciò e ritenendosi quindi un buon tiratore, sottovalutando magari la distanza, avendo di mira un bersaglio idoneo a fermare il moto della vettura appena partita, presumibilmente le ruote, possa essersi sentito in grado di colpire".
Tradotto dal giuridichese: l'imputato ha considerato sì l'ipotesi di colpire qualcuno degli occupanti (e qui vi è palese contraddizione, visto che, in altra parte della sentenza, i giudici aretini affermano l'esatto contrario, ma transeat), ma, avendo conseguito buoni ed “euforizzanti” risultati all'ultima esercitazione di tiro, ha ritenuto di poter evitare tale evenienza in virtù della sua , supposta, abilità di tiratore (abilità che la stessa corte esplicitamente esclude: “Spaccarotella non era un provetto tiratore”).
Si ritorna così all'ipotesi della colpa cosciente o con previsione dell'evento nella quale, come detto, il soggetto attivo prevede la possibilità dell'evento dannoso, ma è convinto di essere in grado di evitarlo, essendo ad es. un abile guidatore, un tiratore provetto, un acrobata ecc. (essendo tale anche oggettivamente, si badi bene, non ritenendo meramente di esserlo).
Orbene nel caso di specie,
per la tipologia di arma usata (probabilmente beretta 92 o simili), per la distanza e la dinamicità del bersaglio, per la concitazione degli eventi ed altre circostanze oggettive, non pare agevole affermare che una persona dotata di facoltà medie di discernimento possa essersi, in maniera oggettiva e ragionevole, ritenuta in grado di evitare di colpire le persone che si trovavano nell'auto .
Anzi, sotto questo profilo, le considerazioni della Corte aggraverebbero, a ben vedere, la posizione dell'imputato, il quale, non essendo di certo un “novellino” del tiro, era pressochè sicuro di colpire l'auto, ma allo stesso tempo, non essendo un “provetto tiratore” (ed anche essendolo sarebbe stato difficile) non poteva assolutamente essere sicuro di colpirla in un punto preciso (ad es. le gomme) a preferenza di tutti gli altri.
Da ultimo va detto che le particolari abilità (particolari, non normali) in base alle quali l'agente è convinto di poter evitare l'evento dannoso, debbono poggiare (questo ad avviso di chi scrive) su solide ed effettive basi di conoscenza ed esperienza e non certo su momentanee ”euforie”.Questo il nocciolo della sentenza, al quale i giudici aggiungono – a mo' di integrazione - ulteriori e non indispensabili considerazioni di ordine psicologico e motivazionale.
"Spaccarotella era tutt’altro che un fanatico delle armi e si fa gia’ non poca fatica per cercare di capire cosa possa essere scattato nella sua mente allorche’ ha deciso di porsi in quel modo cosi’ anomalo e determinato rispetto a un fenomeno che non presentava certo i crismi della gravita’ e della pericolosita’ tali da imporre interventi decisi, del tipo di quello concretamente posto in essere’’.
E ancora: è "ragionevolmente certo anche che egli ritenesse che l'esibizione muscolare dell'arma potesse essere a tal fine sufficiente per l'ovvio timore che essa di norma incute sul soggetto che se la vede puntare contro, a maggior ragione se chi la punta è un uomo in divisa da poliziotto” per cui "è da ritenere sommamente probabile che la precipitosa partenza dell'auto» sulla quale era a bordo Sandri «abbia fatto da detonatore in una situazione vissuta da Spaccarotella come uno smacco per essere stata la serietà della propria iniziativa oggetto non solo di mancata adeguata attenzione ma addirittura come dileggio da parte di quei giovani che di fatto non lo avevano neppure preso in considerazione".
In altri termini, ad avviso dei giudici, la condotta dell'imputato (quanto meno gravemente imprudente) sarebbe stata determinata non tanto dall'intenzione di impedire la commissione di un illecito o di assicurarne alla giustizia i responsabili, quanto dalla volontà di reagire ad uno “smacco” ovvero al dileggio di alcuni giovani.
Tutto ciò, lungi dall'attenuarne le responsabilità, integrerebbe un profilo di ulteriore aggravio della posizione dell'agente di polizia, considerata la futilità dei motivi che lo avrebbero determinato ad agire.Gabriele Sandri
Edited by Claudio Bozzacco - 17/9/2009, 09:18